Nick Cave, Arezzo Wave, 6 luglio 2001

di Acid Rain

Quarantamila persone ad un concerto di Nick Cave erano un evento inimmaginabile fino a qualche anno fa. Arezzo wave, venerdì 6 luglio, ha colmato questa lacuna. E il buon vecchio Nick ha ripagato le attese ed anche le curiosità di quanti si sono recati allo stadio aretino attirati più che altro dall’ingresso gratuito e dai tanti nomi in cartellone. Nomi che hanno disertato il festival per colpa dello sciopero dei controllori di volo italiani. Niente Cousteau, quindi, al loro posto i bravi Mastretta (spagnoli, strumentali, molto Calexico o Tico and the Tarantola) ed un gruppo di rap cinese del quale, al vostro umile cronista, dispiace non ricordare il nome: si corre il rischio di incappare in un cd di questa allucinante band che ha suonato (?!?) tutta inchini e sorrisi per più di un’ora, fregandosene bellamente degli insulti rivolti, sia a loro sia ai controllori di volo italiani, da tutto il pubblico.
A mezzanotte, ora delle streghe, Nick Cave ed i fidi Bad Seeds dannoo inizio alle danze tra gridolini più consoni ad un concerto di Lenny Kravitz, in un’aria densa di alcol e marijuana. Prima novità, Nick sfoggia una barba di almeno sette/otto giorni: chi lo conosce bene sa che questa divagazione dal suo look pulito è tanto sorprendente quanto assistere ad un discorso nel quale Berlusconi ammetta che “sì, effettivamente il conflitto d’interessi può essere un problema per gli italiani…”.
Superato lo shock, si comincia a scartamento ridotto, con tre brani di fila dall’ultimo, osannato album, “No More Shall We Part“. Il vostro umile cronista ammette di non amare particolarmente l’ultima fatica del signor Cave, nel quale, a parere del vostro umile cronista, il crooner australiano non brilla certo per ispirazione. È noto, infatti, che Cave ha dovuto affittare un ufficio a Londra, arredarlo con computer e tastiera, andarci ogni giorno, dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 5 per uscire dal blocco compositivo che lo attanagliava da più di un anno e partorire i pezzi del disco. Che, alla fine, sono quello che sembrano: di maniera. Dal vivo i brani rendono ancora meno, scarnificati degli arrangiamenti elaborati che arricchiscono le versioni da studio. Ma il pubblico non la pensa come il vostro umile cronista e applaude a scena aperta.
Superato il tributo all’ultimo disco, sembra comunque che l’atmosfera di “No More Shall We Part” abbia contagiato anche le vecchie composizioni, eseguite con meno voglia. Nick canta tirando via parecchio, e la band è sgangherata su “Weeping Song”, che è ritornata all’arrangiamento originale, perdendo lo splendido riff ipnotico di violino elettrico di Warren Ellis. Stesso discorso per “Papa won’t leave you”, “Henry”, “Boatman’s Call” ed “Henry Lee”, che acquista però in intensità nella versione all’osso con chitarra acustica e voce. Sarà uno dei momenti più alti della serata. Lo show entra con calma nella parte finale, e Nick Cave, immortalato in primi piani strettissimi dal mega schermo, assomiglia sempre di più ad un Brad Pitt invecchiato, imbolsito e barbuto nel ruolo del killer in un colossal hollywoodiano, oppure al condannato alla sedia elettrica di “The Mercy Seat”, che arriva subito dopo. Ma è una delusione. Il brano attacca lento, solo chitarra, violino e voce, per poi crescere supportato da una maldestra marcetta militare di batteria nella seconda parte. L’esplosione finale del ritornello ad libitum sembra più un botto di capodanno che quella deflagrazione maligna e devstante cui Nick ci aveva abituato nei tour precedenti. “Grazi, rivederci”. Nick saluta ed esce. Il bis si apre nel più classico dei modi, con “The Ship Song” a consumare gli accendini dei presenti, e si chiude davvero bene: “The Curse of Millhaven”, presa da “Murder Ballads” è, finalmente esplosiva, anche se Nick è costretto a leggere il testo da un cartello che uno dei roadies gli tiene incollato davanti alla faccia. Cave trova anche il tempo di presentare tutti i membri della band tra uno stacco e l’altro, prima di salutare di nuovo. Le luci si accendono, ma non è ancora finita: ghigno satanico, sorrisetto alla “Red Right Hand”, Nick Cave urla nel microfono “attenzione, attenzione” e si lancia in “Saint Huck”, capolavoro di un solo accordo datato 1983, che cominciava, appunto, con l’urlo in tedesco “achtung, achtung”. Sette minuti di brividi, corde pestate, tamburi violentati e tastiere divelte come ai bei vecchi tempi. E come ai bei vecchi tempi Nick prende a calci la compostezza degli ultimi anni e si lancia per terra, grida, sputa, si contorce e strappa sui ginocchi il bel completino gessato. Poi esce senza salutare. Un bel regalo, inatteso, che risolleva concerto e morale. Anche perché sono le due di notte e la strada verso casa è lunghina.