THE XX, xx (Rough Trade, 2009)

Una lapidaria X bianca su sfondo nero. Nome: The XX. Titolo dell’album: xx.
Criptico minimalismo che si riflette sulle sonorità del disco di debutto dell’ennesima big next thing della nuova scena britannica. Per meglio comprendere il valore di questo promettente esordio dei quattro ventenni londinesi non basta soffermarsi sull’apparenza come spesso accade di recente in quelle zone d’Europa. Non hanno il figone o la figona di turno, sono particolarmente anonimi senza nemmeno quello stile cool da personaggi indispensabile per sfondare in Inghilterra e nella City. Un vero miracolo. Soprattutto è difficile etichettarli come copia conforme di questo o quel gruppo anni ’80, farli rientrare in un genere accostabile direttamente a filoni più attuali.

La chiave di lettura più immediata è quella del minimalismo. Downtempo. Gelide drum-machine. Sinuosi incastri tra le due voci. Essenziali chitarre figlie della wave. Diventa quasi difficile distinguere le tracce come se unico flusso di magnetiche melodie su sfondi notturni si distendesse verso orizzonti evanescenti. Se l’”Intro” dà l’idea illusoria di un prologo dell’ennesima band innamorata perdutamente di Robert Smith, con “VCR” e il potenziale tormentone “Crystalised” si entra in questa realtà ovattata e al tempo stesso conturbante, nei testi e nelle accattivanti linee vocali. Un ideale panoramica che dagli Young Marble Giant arriva alla scandinavia di Whitest Boy Alive e The Knife e delle algide cantautrici svedesi. Una traiettoria imprevedibile che sfiora diversi generi e influenze senza mai farli propri del tutto. Si lambisce persino il soul e l’R’n’B – “Islands” e l’altro hit “Basic Space” finendo per depurarlo dai suoi tratti più netti e adeguandolo con naturalezza al loro mood cupo e crepuscolare.

Così senza strappi si va da avvolgenti electro-pop come “Heart Skipped A Beat” all’agghiacciante pausa ambientale di “Fantasy”, unica vera sosta dell’album, non a caso a metà disco, che fa emergere la loro suggestione per il dream-pop di due decenni fa. Suggestione che trova sbocco più evidente in “Shelter” ovviamente in un’accentuazione minimale che fa emergere la voce sullo scheletrico e a tratti impercettibile accompagnamento. Coi tratti black che poi riprendono la scena fondendosi timidamente a ritmiche wave e chitarre da revivalist doc alla Interpol in “Infinity”. “Night Time” è dello stesso tenore ma osa con una più decisa accelerazione delle ritmiche sul finale che con delicatezza richiama Depeche Mode e The Cure.
Brani sempre percorsi da una piacevole aria di incompiutezza e mancanza delle quali ci si fa un’idea arrivando alla smorzata finale di “Stars” e chiedendosi se questo potrebbe mai essere il finale di un album.
Prevale infatti nei trentotto minuti di “xx” il sapore agrodolce di quei sogni interrotti bruscamente dei quali restano delle emozioni chiare e penetranti in un quadro nebuloso di flash e immagini difficili da definire.
Due banalissime x che nessuno si aspettava giungono in soccorso in un’ideale empatia con le turbe pseudo-esistenziali di fine estate.

(Piero Merola)

6 ottobre 2009

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