Nicola Manzan alla scoperta del Manicomio di San Lazzaro

Nicola Manzan – La città del disordine. Storie di Vita dal Manicomio San Lazzaro è un album ma soprattutto un progetto che ha trasformato in musica le cartelle cliniche di alcuni pazienti dell’ex Ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia per riflettere sui temi della fragilità, dell’inclusione, della lotta allo stigma. Il nostro Michele Scaccaglia ha visto il live lo scorso 12 ottobre all’ex Manicomio San Lazzaro, dove in sostanza l’artista ha rappresentato l’opera nel luogo che ispira la stessa, e restituisce non il solito live report, ma anche qualche riflessione generale sul luogo e sul tema.

Ho conosciuto Nicola Manzan a Berlino, in un festival di musica sperimentale. In quell’occasione  aveva proposto Uno Bianca, classico del suo repertorio sotto lo pseudonimo di Bologna Violenta. Era fine agosto 2021 e le rigide misure anticovid inchiodavano il pubblico alle sedie, a distanza, con mascherina, in totale antitesi con l’energia sonora dell’evento. Singolare ritrovarsi un anno dopo, ormai esentati da regole sanitarie, per questo concerto all’interno di un luogo simbolo di coercizione e reclusione.

Il Manicomio San Lazzaro di Reggio Emilia è stato uno dei principali ospedali psichiatrici italiani, attivo dal 1821 al 1978, quando la legge 180, meglio nota come Legge Basaglia, ne decretò la chiusura. Passando in rassegna gli oggetti e gli strumenti dell’epoca conservati nella Sezione Lombroso, che dal 2013 è diventata Museo di Storia della Psichiatria, non si può non essere rapiti da un senso di oppressione e disagio. Tra camicie di forza e crudeli macchinari di dubbia efficacia si viene travolti dall’inquietudine. Credo sia dovuto non solo alla compassione, ma anche alla paura recondita di poterci finire anche noi in un posto così. Quelli ci finivano perchè erano matti, potrebbe obiettare qualcuno. Ed è proprio quello il nodo della questione. Come si stabilisce la normalità? Chi ha il potere di decidere cosa sia normale e quali casi debbano finire sotto l’etichetta della deviazione? Come recita un monito posto all’ingresso del museo, i confini tra salute mentale e malattia, tra lo star bene e l’essere malato, sono bel lontani dall’essere chiari e mai lo saranno, per via del fatto che considerazioni di ordine culturale, sociale e psicologico rendono labili tali confini. Per un errore, un sentito dire, una chiacchiera invidiosa, si poteva finire proprio qui, in uno dei padiglioni del San Lazzaro. L’internamento è stato anche e soprattutto questo, uno strumento coercitivo di frequente abusato dai poteri forti a tutti i livelli sociali, famiglia compresa. Basti pensare alle vicende di donne che nel tentativo di sottrarsi a violenze domestiche venivano fatte rinchiudere per mano del marito.

La tematica è viva, complessa, evolve ma permane. Su di essa, l’arte si è spesso interrogata. Non di rado genio e presunta infermità si sono intrecciate, sovrapposte, confuse negli occhi non sempre lungimiranti della collettività. Basti pensare che nel Museo sono conservate 8000 opere (disegni, tele e terrecotte) prodotte dagli ex ricoverati e, proprio nella Sezione Lombroso, il pittore Antonio Ligabue fu internato dal 1945 al 1948. “Sono nata il ventuno a primavera ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenar tempesta” scriveva Alda Merini ne La pazza della porta accanto (Bompiani, 1995). La sua produzione letteraria e la sua cifra poetica sono state indissolubilmente legate alle esperienze vissute negli ospedali psichiatrici tra Milano e Taranto, atroci ma a modo loro stimolanti, propedeutiche alla sublimazione della follia come dono fatto all’artista per scardinare l’ordinario o, appunto, per scatenar tempesta.

Con La città del disordine, l’arte stavolta entra dal portone principale e senza restrizioni, ed è intenso sentir riecheggiare musica tra corridoi in cui in passato scorrazzavano solo suoni di disperazione e rassegnati silenzi. Il progetto si fa apprezzare per l’approccio delicato e l’assenza di forzature critiche. Le storie che Manzan ha scelto di musicare sono semplicemente estrapolate dalle cartelle cliniche dell’archivio del San Lazzaro e hanno come titolo il nome del paziente e l’iniziale del cognome. Lasciano tutte ben trasparire l’incertezza, l’equivoco, i sotterfugi che hanno scandito il destino funesto di alcuni internati. Rimane impressa, ad esempio, Adele B. di Castelnovo Monti, internata a soli 13 anni per presunte allucinazioni. In paese si erano diffuse voci sull’apparizione della Madonna presso un cespuglio di ginepro e che fosse stata appunto quella ragazzina ad assistere per prima al miracolo. In realtà Adele, probabilmente per schernire un’amica, disse solo di aver visto una bambina nascosta in quel punto, non di certo la Madonna. Tanto bastò, però, per giustificare un ricovero di due mesi mentre il cespuglio, ormai meta di pellegrinaggi, fu estirpato dalle autorità. Un altro caso toccante è quello di Arturo A., ospedalizzato per due anni in seguito a un finto incontro con una ragazza, scherzo organizzato da alcuni “amici” e motivo scatenante di apatia e manie di persecuzione.

Otto pazienti per otto composizioni in cui la voce narrante viene affidata alla melanconia del violino, che procede a volte onnisciente, altre in prima persona come in “Concetta G”: se chiudiamo gli occhi, le sue grida ci affliggono. Melodie stridenti, giocose, dissonanti sono ammorbidite da rintocchi di xilofono che riconvertono la follia in fantasia e accompagnano marcette e fughe, in semantica contrapposizione con le atmosfere claustrofobiche del luogo. Il pubblico empatizza facilmente con le narrazioni e, almeno per una sera, quei volti riacquistano dignità e colore. A memoria di questa città del disordine e delle sue storie di vita resta un album coinvolgente, edito da Overdrive Records / Dischi Bervisti.

Il mattino dopo il concerto, al bar del paese in cui sono cresciuto, mi si avvicina R., che mi fissa con occhi farmacologici incastonati in strati di occhiaie. Mi chiede un euro per giocare ai cavalli. Promette di dividere con me la somma dell’eventuale vincita. È da 30 anni che fa a tutti la stessa promessa. Probabilmente, prima del 1978, per alcuni suoi comportamenti eccentrici, un giro al San Lazzaro gliel’avrebbero fatto fare a cuor leggero. Invece è andata bene così, perché in fondo le persone come R. sono parte essenziale di una comunità. Forse, la più romantica. Sorrido e tiro fuori un euro. “Mi raccomando R., ci conto. Buona fortuna!”

(Michele Scaccaglia)