BIG THIEF, “Dragon New Warm Mountain I Believe in You” (4AD, 2022)

In preda a un fuoco creativo che li accompagna da anni e che si incarna segnatamente in quello della loro leader, Adrianne Lenker, epicentro della straordinaria armonia che la band ha raggiunto sin dal suo ottimo sophomore album, Capacity, un turbine di talento che ha dato vita ai grandiosi U.F.O.F. e Two Hands e all’altrettanto eccezionale songs / instrumental, il disco solista che Lenker ha pubblicato nell’autunno del 2020, i Big Thief procedono spediti verso nuove terre non limitando in nessun modo il proprio raggio d’azione e facendo tesoro delle esperienze accumulate finora. Dragon New Warm Mountain I Believe in You, il loro quinto album in sei anni, è quello che Lenker e soci, il chitarrista Buck Meek, il bassista Max Oleartchik e il batterista James Krivchenia, qui per la prima volta anche in veste di produttore, sono in questo istante e che tra poco potrebbero non essere più, pronti già a un altro scatto in avanti imprevedibile e autentico. Le venti canzoni del disco sono l’ennesimo, prezioso tassello nell’inarrestabile e scoppiettante percorso di crescita di una delle band più in forma e più ispirate degli ultimi anni.

Sfuggente e mutevole per natura, il quartetto statunitense è da tempo un tutt’uno con la sua stessa musica. Essa, infatti, è sia ciò dentro la quale i suoi membri “si nascondono”, una coltre di nebbia che in qualche modo fa emergere l’atto artistico e fa quasi scomparire quelli che lo producono, sia ciò che dà consistenza alle esistenze stesse dei quattro, perché non c’è nota o suono che non sia frutto della loro stupefacente intesa, una sorta di trance agonistica – per utilizzare una metafora mutuata dal mondo dello sport – che vede i Big Thief farsi le canzoni che creano e che eseguono. Per questo è nella musica stessa che si mostrano e che si offuscano, senza che in ciò vi sia alcuna contraddizione. In questo senso Dragon, nei suoi ottanta minuti, è una scommessa audace e decisamente vinta nel corso della quale i Big Thief esplorano dimensioni che ancora non avevano mai perlustrato, nonostante ne avessero percorse e descritte già tante, e di così diverse tra loro, precedentemente.

Sono proprio la fratellanza tra i quattro membri del gruppo e la loro così nitida comunanza di idee e visione delle cose che rende insieme spirituale e terreno tutto ciò a cui i Big Thief danno vita. Si intrecciano qui i rami dell’elemento cosmico e spirituale di U.F.O.F. e di quello terreno e terrestre di Two Hands per la prima volta condensati senza soluzione di continuità, e se Dragon manca della concisione e della sintesi – lato sensu – che caratterizzava i suoi due illustri predecessori è solamente perché la sua forza sta proprio nella sua organizzazione splendidamente caotica, forse il miglior ossimoro che potrebbe descrivere il disco, una sorta di personalissimo White Album all’interno del percorso artistico del gruppo. Quel “dragon in the new warm mountain” nominato nel testo della meravigliosa “anything” presente sull’album songs di Lenker diventa ora la presenza misteriosa e pulsante intorno alla quale prende forma e cresce questo eccezionale sentiero musicale.

Spinti dalla necessità di dar sfogo a un fuoco creativo che da qualche anno per loro pare davvero non avere limiti e dal bisogno di fondare ciò su un senso di libertà artistica in nessun caso negoziabile, i quattro cuciono su e per se stessi solidi episodi folk, cavalcate country, ballate rivelatorie, pop psichedelico, scariche di rock elettrico, fumose sbornie trip-hop e sorprendenti escursioni elettroniche senza che nulla sia fuori posto. È proprio questa poikilía che tiene insieme, con una limpidezza sconcertante, l’intero progetto, ed è l’arte allusiva che la band mette in piedi, con eleganti e sottili citazioni a John Prine e addirittura ai Portishead, per citare soltanto due nomi, che tesse il fil rouge fragilissimo eppure fondante che attraversa il lavoro, fondamentale nella comprensione di questo magnum opus, magnum sia per profondità che per lunghezza. È per questo motivo che possono germogliare episodi come “Flower of Blood”, tagliente e incontenibile, il cui ritmo ostinato e il cui muro di suono sono quasi un unicum nella produzione del gruppo, che va in una direzione elettronica e distorta anche in altri momenti del disco, la pertinace “Heavy Bend” e la asfissiante “Blurred View”. Ancora più difficile da descrivere è quell’uragano di immagini proustiane e joyciane che è “Little Things”, sublime pop rock quasi psichedelico che sorge da un amalgama immersivo e totalizzante di voce, chitarre, basso e batteria.

Dragon è ovviamente una straordinaria finestra aperta sulle qualità cantautorali di Lenker, di fatto diventata già da diversi anni una delle compositrici più apprezzate nel panorama musicale statunitense. La sua sfragís e la propria concezione di scrittura emergono un po’ ovunque nel corso del dispiegarsi di Dragon. Una costante della scrittura di Lenker, per esempio, sta nel tentare di avvicinarsi a qualcosa di potenzialmente umano che forse, però, umano non è, e di farlo come se si fosse alieni a (e alienati da) ciò. “Simulation Swarm” è la più perfetta realizzazione di questo disegno: il disagio nel percepire la propria corporeità o nel non riuscire ad armonizzarla con quella altrui rende deboli un istante e improvvisamente invincibili nell’istante immediatamente successivo; si è sul punto di cedere e di lasciarsi vincere dal tumultuoso caos della vita finché un momento dopo non si è pronti a combattere finanche a mani nude per sopravvivere e provare ad allacciare un contatto con la creatura alla quale ci si sta avvicinando. È una sensazione che si può leggere in alcuni passi del Memoriale di Paolo Volponi o in alcune poesie-frammento di Giuseppe Ungaretti. Lenker riesce sempre a trovare un punto di equilibrio prima che la frattura diventi insanabile: la magia delle sue canzoni sta soprattutto in questo.

Sono tanti e fondamentali i temi che le canzoni toccano. La scrittura di Lenker, ormai lo sappiamo, avvolge in qualche modo qualsiasi sfumatura del mondo, dell’esistente e del non esistente. In “Certainty”, l’unico brano del disco che oltre alla firma di Lenker porta anche quella di Meek, il puro gioco linguistico e la volontà di rappresentare concretamente qualcosa che non si può toccare con mano si compenetrano: “Maybe I love you is a river so high / Maybe I love you is a river so low”, canta Lenker, parole che nella loro apparente semplicità tradiscono un significato allegorico che è impossibile da esaurire in qualche paio di versi. Si resta, così, aggrappati alle epifanie passeggere che il brano, attraverso il suo incedere solido costruito intorno a una melodia accattivante, dissemina come bricioli di pane in una foresta fittissima e buia. “Sit on the phone, watch TV / Romance, action, mystery”: è come se, mentre Lenker li elenca, quelle azioni e quei nomi si materializzassero di fronte a noi all’improvviso, e anche le cose che un tempo ci parevano le più naturali e banali ora sono parte di un cosmo primigenio e sincero e assumono, quindi, un valore inestimabile. E anche in “Spud Infinity” l’horror vacui delle situazioni che la canzone ci dipinge di fronte ai nostri occhi diventa una dichiarazione di poetica solida e originalissima, un vero manuale di istruzioni su come colpire nel profondo dell’anima attraverso ironia e fantasia.

Un altro elemento che rende Dragon in parte differente dai suoi predecessori è il forte aspetto collaborativo che lo caratterizza. In realtà i musicisti esterni coinvolti non sono numerosi, ma è il sound della band a risultare ancora più ampio e multicolore di quello già profondissimo e composito degli album gemelli pubblicati nel 2019. Quelli rappresentavano la akmè di due visioni del mondo complementari, e il focus rigoroso e centrato che essi perseguivano è inevitabilmente e giustamente evitato qui, scansato sin dall’inizio, nell’ideazione stessa di ciò che è diventato Dragon. A rendere ancor più diversificate e cangianti le sfumature del disco è, per esempio, il fiddle rurale che impazza nella gioiosa “Spud Infinity”, la cui spiccata ironia nasconde in realtà tra le righe riflessioni come al solito profonde e perturbanti, come rivelato dalla stessa Lenker in una recente intervista rilasciata a Pitchfork, e nella romantica “Red Moon”, dal ritmo spumeggiante. Non mancano, poi, momenti puramente folk abbacinanti e ammalianti durante i quali Lenker è sola con la sua voce e con la sua chitarra, come accade nella incantevole “The Only Place”, uno dei momenti più mozzafiato del disco. “The only place that matters / Is by your side”, canta Lenker mentre una fiamma la consuma, come trasportata via dalla sua stessa canzone.

L’aspetto maliziosamente disordinato che Dragon sembra avere tradisce in realtà un’organizzazione estremamente curata e precisa. La determinazione del gruppo è impressionante e la produzione di James Krivchenia è versatile e particolareggiata ed è emblematica della scelta del gruppo di voler incidere il disco in quattro luoghi diversi, Massachusetts, New York, California e Arizona, che in parte ricalca quello che era accaduto per U.F.O.F. e Two Hands, il primo, onirico ed estatico, registrato nell’area metropolitana di Seattle, il secondo, pungente e diretto, inciso tra California e Arizona. In Dragon convivono un numero ancora maggiore di luoghi e persone incontrati in questo viaggio musicale e geografico. A unire i puntini è il songwriting eccellente di Lenker, sono la sua voce, calda e avvolgente, e quella specie di incantesimo che sembra rapire il quartetto ogni volta che inizia a suonare, quartetto che, posseduto da un qualche daimon, è pronto ancora una volta a stupirci.

80/100

(Samuele Conficoni)