FLAMING LIPS, “American Head” (Warner/Bella Union, 2020)

 La cosa positiva di questo disco è che almeno ha un suo format definito e che è un disco di canzoni. Per la verità non ho nulla contro modelli compositivi più sperimentali, ma sinceramente trovo che buona parte della discografia dei Flaming Lips non sia altro che mera estetica e autocelebrazione di se stessi. Un carattere che hanno sicuramente saputo trasmettere nel migliore dei modi: eccentricità, scelte e atteggiamenti sopra le righe, performance spettacolari, gossip. Tutto ha funzionato benissimo. Ma sul piano qualitativo la produzione è scadente, fino al tonfo totale con “Oczly Modly” (Warner/Bella Union) nel 2017.

Questa specie di rinascita, inaugurata già con il concept album “King’s Mouth” (Warner/Bella Union) uscito l’anno scorso, nasce forse come risposta a tutta questa serie di atteggiamenti. Il nuovo album “American Head” (Warner/Bella Union), anticipato già da mesi con una serie di singoli usciti a partire da maggio, compie a tutti gli effetti questo processo che se con “King’s Mouth” si concentrava sullo sviluppo di una narrazione concettuale legata a un immaginario psichedelico anni settanta, qui si compie in una serie di ballad pop-psichedeliche dreamy e che richiamano una specie di ritorno al passato con una forte componente nostalgica e allo stesso tempo onirica.

È un disco facile e in cui le canzoni appaiono ripetitive, sembra infatti a un certo punto di ascoltare più o meno sempre lo stesso pezzo, la formula adottata è sempre la stessa è anche i suoni non spiccano certo per originalità e scelte particolarmente anticonvenzionali. Gli arrangiamenti sono abbastanza ingenui ma di facile presa sull’ascoltatore. L’uso del vocoder e di effetti per il riverbero della voce è una costante. L’immaginario dreamy viene reso sin dall’inizio con “Will You Return / When You Come Down” (con Micah Nelson, uno dei figli di Willie Nelson) che si apre come una ballad acustica, poi sembra tipo “What’s Up” delle 4 Non Blondes e alla fine dà ampio spazio a orchestrazioni manieristiche pop-rock anni sessanta-settanta. Importante la partecipazione della vocalist Kacey Musgraves, stella del country che presta la propria voce su “Watching the Lightbugs Glow”, “Flowers of Neptune 6”, “God and the Policeman”. Dentro il disco c’è la mitologia Sgt. Pepper, il transumanesimo “Transformer Man” di Neil Young (“Brother Eye” ad esempio) e qualche richiamo a una forma sensibile di cantautorato Bill Fay (“Mother Please Don’t Be Sad”).

Il disco è stato raccontato come una specie di ritorno all’infanzia e penso che si possa benissimo a questo punto definire come il disco rassicurante dei Flaming Lips dopo che Wayne Coyne ha voluto spingere al massimo la spettacolarizzazione attorno al gruppo. Faccio fatica a essere entusiasta di questo disco, non si può definire come brutto, ma mi domando perché uno dovrebbe entusiasmarsi, nessuno ascolta un disco di musica pop-rock perché vuole essere rassicurato. Così come non c’è bisogno di vedere delle performance di Marina Abrahmovic per sentirsi scossi. La retorica del “fanciullino” la lascio volentieri ai testi di antologia e a tutto questo preferisco un solido e concreto contatto con la realtà.

62/100

(Emiliano D’Aniello)