La Top 7 Songs di Fine Antropocene

L’Antropocene, si sa, è il concetto per definire questa era in cui l’impatto dell’uomo e dell’industrializzazione da esso creata sta modificando gli stessi elementi naturali. Qui a Kalporz ci siamo chiesti quali canzoni possono rappresentare bene questo momento storico, reso ancora più surreale dalla quarantena da COVID-19 in cui siamo immersi, e quali indicazioni/sensazioni ci possono restituire per il futuro.

7. JOE STRUMMER AND THE MESCALEROS, “Johnny Appleseed” (da “Global a Go-Go”, 2001)

Prima traccia dell’album “Global a Go-Go”, “Johnny Appleseed” è una canzone che attraverso il tributo alla storia di John Champman, pioniere dell’attivismo ecologico che nel XIX secolo se ne andava a zonzo dalla Pennsylvania fino al selvaggio West a piantare alberi di melo, veicola un profondo messaggio politico e sociale, in pieno stile Strummer. I semi piantati dal buon vecchio Johnny sono certamente quelli dell’altruismo e della socialità, della fratellanza fra le persone di tutto il mondo e di tutti i paesi. La citazione di Martin Luther King, nel testo della canzone, lo esplicita in maniera chiara. Ma nel ritornello Strummer inserisce un messaggio più marcatamente politico, rivolto all’abbattimento delle ineguaglianze e delle ingiustizie: “If you’e after getting the honey, hey, then you don’t go killing all the bees”. Le api in questione rappresentano la classe operaia, i lavoratori e gli sfruttati di tutto il mondo, quelli che producono la ricchezza sociale e che spesso non ne traggono beneficio. Un testo consapevole, dunque, da parte di uno dei massimi profeti del rock “impegnato”, e che ci ricorda che la questione ecologica è sempre, allo stesso tempo, anche una questione politica. (Gianpaolo Cherchi)

6. THE DEVIANTS, “Last Man” (da “Disposable”, 1968)

I Deviants di Mick Farren, band dell’underground londinese dell’era della swinging london, fin dalle origini hanno sottolineato le contraddizioni della nostra società e le sue tendenze autodistruttici facendo del sarcasmo la nota dominante. Si pensi a brani come “Garbage”, in cui l’immondizia diventa un bene prezioso da ricercare e conquistare a tutti o costi, o “Let’s loot the Supermarket” che invita allegramente gli ascoltatori a saccheggiare un supermercato nel giorno della fine della civilizzazione. In “Last man” l’ironia viene però messa da parte. Il brano è in effetti un tetro collage di suoni d’atmosfera in cui la riverbertissima voce di Farren appare aggirarsi in uno scenario post apocalittico dove riconosce, con orrore, di essere l’ultimo uomo rimasto sulla terra. Lasciato da solo a percorre le rovine della città, non resta altro che il frastuono di un lamento allucinato e martellante. (Eulalia Cambria)

5. C.S.I., “Noi Non Ci Saremo” (da “Noi non ci saremo Vol. 1”, 2001)

Non so perché, ma questa versione della canzone di Guccini mi ha sempre messo un groppo in gola: è che l’arpeggiatore nostalgico di Magnelli, i cori mistici che si stagliano all’orizzonte sonoro e la voce “da sermone” di Ferretti (shiftata tra vocoder e umano) riescono a interpretare in maniera autentica questa descrizione di un mondo post-glaciazione, un luogo silenzioso mondato da tutto in cui regna la natura fino a che vita umana risorgerà. È un po’ come ora: il virus ci ha confinato in una glaciazione degli spostamenti e dei sentimenti, ci ha immobilizzati in una stasi in cui potremo riemergere solo al termine di un dopo, a seguito di un rinnovato approccio alla vita. L’acqua nella laguna di Venezia è tornata trasparente come un ruscello, evapora lo smog, gli animali sono quasi-padroni delle nostre terre: e viene quindi quasi da invocare che sia una Chernobyl della nostra velocità senza senso, del nostro girare a vuoto, della nostra attenzione prosciugata. Ma probabilmente, quando avverrà tutto ciò, quando finalmente avremo compreso come essere in armonia con la vita dei batteri, delle piante e di tutti di esseri viventi, noi non ci saremo. Ci sarà solo l’idea di noi stessi. (Paolo Bardelli)

4. POLO & PAN, “Canopée” (da “Caravelle”, 2017)

La canopia è lo strato superiore delle chiome della foresta, un vero e proprio habitat naturale a sé stante dove vivono tantissime specie diverse di animali. L’elettronica dal mood tropicale dei francesi Polo & Pan ci racconta il sogno di una fuga nella canopia lussureggiante della foresta pluviale, dove due innamorati conducono un amore lontano dalla modernità, nell’utopia di un nuovo Eden: “Storia indimenticabile di un sogno,/noi vivevamo insieme in Amazzonia”. (Claudia Calabresi)

3. JAMES FERRARO, “No Future” (“Requiem for Recycled Earth”, 2019)

Negli ultimi dieci anni con il suo lavoro James Ferraro si è continuamente interrogato sull’impatto della specie umana sul pianeta, quanto sulla sua duplice presenza, tra fisica e virtuale.
Dopo tutte le riflessioni sull’umano, l’ultima fatica (a oggi, ancora in corso d’opera) del compositore statunitense si concentra sul nostro pianeta e sul ‘divorzio’ tra la natura e la nostra specie. “Requiem for a Ricycled Earth”, il primo capitolo di una serie di quattro opere sull’argomento, racconta l’ecocidio ambientato nella metà di questo secolo, presentandoci soundscape distopici con i classici elementi ferrariani: cori sintetici, largo uso di sintetizzatori e strumenti a fiato.
Musica per gli occhi, quella di Ferraro, che ci mette davanti a una dura realtà: l’uomo sta uccidendo la Terra e la sta abbandonando, lasciando in eredità solo una decadente esibizione delle capacità tecniche della specie. (Matteo Mannocci)

2. KATE TEMPEST, “Tunnel Vision” (da “Let Them Eat Chaos”, 2016)

Se un comizio di Greta Thunberg potesse essere messo in musica, andrebbe molto vicino a questo brano di Kate Tempest, l’ultimo in scaletta di un magnifico affresco dei nostri tempi quale è “Let Them Eat Chaos”, pubblicato nel 2016. Dentro al mix di spoken word e tappeti dark elettronici troviamo tutti gli elementi per affrontare i grandi problemi che ci riguardano in prima persona : il grido di aiuto (“Indigenous apocalypse, decimated forest/The Winter of our discontent’s upon us”), la presa di consapevolezza (“If we can’t face it, we can’t escape it/But tonight the storm’s come”), la denuncia dei soprusi dell’uomo (“Existence is futile, so we don’t engage/But it was our boats that sailed, killed, stole, and made frail”) e la volontà di azione, che passa per l’amore che ci unisce l’uno con l’altro (“I’m screaming at my loved ones to wake up and love more/ I’m pleading with my loved ones to wake up and love more”). Non a caso il coro femminile sul finire di “Tunnel Vision” porta uno spiraglio di luce. Le due ragazze sono separate da diciassette anni, ma unite in una lotta alle ingiustizie e al declino della civiltà che fa di loro un esempio per le generazioni future. (Matteo Maioli)

1. SUUNS, “2020” (da “Images du Futur”, 2013)

Nel 2013 I Suuns pubblicarono un album, !Images du Futur!, che provava a immaginare il mondo per come sarebbe stato nel decennio successivo: affascinante, cupo, senza speranze, nel dominio dell’electro-post punk. “2020” profetizzava che quest’anno avremmo subito le conseguenze dei piaceri che gli esseri umani hanno voluto appagare fino ad ora, nel suono distorto di una realtà che non avremmo potuto più ignorare. Avevano ragione? (Claudia Calabresi)

Cover: Edward Burtynsky Dandora Landfill #3, Plastics Recycling, Nairobi, Kenya 2016 photo © Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milan / Nicholas Metivier Gallery, Toronto