BRAINBLOODVOLUME No. 43

-“Induction of Psychoneuroses by Conditioned Reflex Under Stress”.

What does that mean?

Julie’s Haircut, “In The Silence Electric” (Rocket Recordings, 2019)

Dopo “Invocation And Ritual Dance Of My Demon Twin” (2017) ecco il secondo disco su Rocket Recordings per i Julie’s Haircut. Si intitola “In The Silence Electric”, è uscito ad inizio ottobre e sulla copertina richiama il volto dell’artista avanguardista e femminista Annegret Soultau, il segno di una ricercatezza che a questo gruppo non è mai mancata, così come quelle citazioni colte che sono state tipiche per un grosso pezzo di quel filone di gruppi che si definivano come post-rock. Reduci dalla sonorizzazione di una pellicola del regista austriaco Josef Von Sternberg del 1928 (“Music From The Last Command”, ) il gruppo emiliano ha raccolto attensioni a prescindere prima dell’uscita di questo disco, vuoi per quella reputazione (sempre relativa, considerando il contesto) acquisita negli anni nel nostro paese, vuoi per l’importanza della label nel panorama della musica psichedelica europea e che infatti è stato accolto favorevolmente dalla critica. Forse pure troppo. Quello che voglio dire è che il disco è bello e accattivante, suonato bene e registrato meglio, ma se si pone al di sopra di gran parte della loro produzione, appare già un gradino sotto al lavoro precedente. Va detto che molte delle idee che ci ritroviamo qui dentro sono in grossa parte riciclate o comunque poco originali. Il disco si apre con un pezzo, “Anticipation Of The Night”, che praticamente è una specie di “ninna nanna” in un certo stile J. Spaceman e Spiritualized. Si potrebbe dire lo stesso pure di “Lord Help Me Find The Way”, che unisce questa attitudine con quella gospel dei BRMC, cui guarda pure il taglio di alcune venature blues in “Pharaoh’s Dream”, così come un pezzo come “Darlings Of The Sun” ne riprende il lato più pop e sfacciatamente ammiccante. Più interessante forse il resto del repertorio, che attinge a piene mani dall’eredità del Bowie berlinese. I suoni affilati di “Emerald Kiss”, forse il pezzo dominante dell’album, si coniugano a dei mantra Dead Skeletons (vedi pure “Sorcerer” oppure il profilo Singapore Sling di “Until The Lights Go Out”) e l’uso tipico dei fiati che rendono quelle atmosfere di fine anni settanta; le visioni oniriche e sintetiche di “In Return”; il glam sotterraneo post-atomico di “For The Seven Lakes”… Insomma ci sono tante cose buone e i modelli sono – come dire – quelli giusti, ma il disco suona nel complesso un po’ fuori tempo massimo e soprattutto non è chiara ancora dopo tanti anni, quale sia l’effettiva identità di questo gruppo che è più forma (molte) che contenuti. Che non sono pochi, ma sono troppi e comunque mai sviluppati in una direzione univoca. Però penso che piacerà per un po’ a qualcuno prima di finire nel dimenticatoio.

61/100

Charles Rumback & Ryley Walker, “Little Common Twist” (Thrill Jockey, 2019)

Imperdibile nuovo album di Ryley Walker. Il chitarrista di Rockford (Illinois), classe 1989, sin dal suo debutto si è mostrato particolarmente prolifico e questa è una fortuna. Considerato l’incarnazione del prototipo del chitarrista americano, coniuga uno stile derivato dal jazz con il folk psichedelico e quello che viene definito come primitivismo americano. Da questo punto di vista, appare un esponente di punto anche di un certo avanguardismo ma che rispetto a altri grandi dello strumento e del genere contemporanei (vedi Ben Chasny) ma pure del passato, è sicuramente più facile e di richiamo. In buona sostanza, vi dico: buttate via tutta quella roba tipo Father John Misty, Jonathan Wilson e Kurt Vile e ascoltate qualche cosa di buono e scusa tanto Ryley per l’accostamento (tutto sommato, improprio). Al suo debutto per la Thrill Jockey (wow!) Ryley Walker si accompagna al batterista jazz di Chicago, Charles Rumback, un nome poco noto per gli aficionados pop-rock in tutte le sue sfumature, ma noto negli ambienti per il suo stile innovativo e chiaramente “free”. Per inciso, i due hanno già collaborato in passato per la realizzazione dell’album “Cannots” nel 2016 (Dead Oceans), quindi squadra che vince, non si cambia. Qui completano la formazione il bassista Nick Macri su “Idiot Parade” e – ai synth – il producer John Hughes. Al centro chiaramente appare soprattutto quelle che sono le skills di Walker, che nella successione delle otto tracce dell’album mostra in buona sostanza tutto il suo repertorio. “Half Joking” è una costruzioni di arpeggi che va dal primitivismo a uno stile quasi “vanmorrisoniano”, “Self Blind Sun” ha uno stile più dimesso che ricorda alcune cose del Michael Gira solista e dei suoi figliocci Akron/Family in dimensione rigorosamente acustica, “Idiot Parade” è già un pezzo meno minimalista e con uno stile jazz con forti suggestioni visive, quasi paesaggistiche, “And You, These Song” fa suonare gli spazi vuoti prima che la composizione alla fine si vada a rifuggiare dentro un buco nero, una specie di vuoto cosmico; sfumature ricche di eco e riveberi, con uso ampio dell’effettistica esaltano il sound di “Menebhi”, “Ill-Fitting / No Sickness” invece ancora Van Morrison; finalmente con “If You’re Around and Down” abbiamo modo di focalizzare la nostra attenzione maggiormente sulle capacità di Rumback, mentre il suono della chitarra di Walker sembra fare più da accompagnamento. Infine “Worn and Held” è una dirompente sessione di musica cosmica psichedelica. Successo assicurato, come prevedibile, ma, come dire, piatto ricco, mi ci ficco. Qualità e classe al servizio degli ascoltatori.

75/100

CHICKN, “Bel Esprit” (Inner Ear Records, 2019)

Sono sicuramente uno dei gruppi più originali in circolazione nel panorama pop-rock psichedelico del nostro continente. Forse questo è in parte (ma solo in parte) legato alla provenienza geografica, dato che invece che dal Nord Europa, i CHICKN di Angelos Krallis, mente pensante del gruppo che l’anno scorso aveva stupito con quel bel disco che si intitola “Wowsers!” (Inner Ear Records), ma sarebbe riduttivo pensare che le ragioni alla base di questa originalità e di questa particolare verve siano dovute a questa ragione specifiche. In effetti la Grecia, come tutti i paesi del Mediterraneo e forse più di tutti gli altri, vive una fase storica contraddittoria e molto difficile e che si potrebbe definire come oscura. Lo sono molto spesso di conseguenza anche quelle che potremmo solo apparentemente definire come “idee” di dimensioni culturali spesso autoreferenziali e in fondo noi italiani ne sappiamo bene qualcosa, anche in quegli ambienti che dovrebbero essere “alternative” rispetto a quei soliti canali mainstream. Quindi riconosciamo a questo ensemble colorato e geniale (dal vivo si esibisce con formazioni che arrivano a contare fino a 14 elementi!) la sua caratteristica specifica e quella capacità di essere qualche cosa di “straordinario” in un grigiore diffuso. “Bel Esprit” esce ancora per la mitica Inner Ear Records: è un disco che è psichedelico perché è visionario, rimanda a visioni immaginifiche che appartengono a un mondo passato e mai tramontato come quello del circo. Prodotto da Nikos Triantafyllou e Iraklis Vlahakis, oltre che da Krallis, il disco ha un mucchio di suoni tortuosi di tastiere (“Bel Esprit”, “Chickn Tribe”), caratteri indie tipo Animal Collective (“Sweet Geneva”, “Die To Make a Living”…) , suoni progressive anni settanta e accenni di wave anni ottanta tipo Simple Minds (“Infrared Panda Club”), un carattere che si esalta nella ballad pop-soul accompagnata dal sound dei fiati e l’uso del vocoder per la voce di “Candle Fly”, l’accento “brass” di “Evening Primrose” e la sentimentale “She’ll Apples” (che ha una certa magnificenza dei suoni pure Neutral Milk Hotel). “Bel Esprit” nel complesso appare comunque un disco meno tipicamente rock psichedelico rispetto al suo predecessore, il gruppo sembra prendere una svolta “indie” (termine usato nel senso più ampio possibile) che non ne faccia perdere lo charme e i toni glamour, al contrario li accentua, li rende quindi più accattivanti, forse meno free-form nel senso classico del termine. Il campo di riferimento qui sono più gli anni ottanta che il decennio precedente e si sente. Quanto tutto questo sia avvenuto in maniera consapevole oppure no, non lo possiamo dire, ma non è stato uno sviluppo del tutto inatteso e ha senso con quello che è il concept generale del gruppo. Forse c’è persino una riscoperta del patrimonio musicale del proprio paese oltre che la voglia richiamata, di andare oltre. Continuano a farlo e questo è il segnale più importante.

64/100

Dommengang, “No Keys” (Thrill Jockey, 2019)

I Dommengang si confermano una delle band più toste del decennio. Il trio di Los Angeles, California, sotto l’egida della Thrill Jockey e composto dal chitarrista Dan “Sig” Wilson, il bassista Brian Markhan e il batterissta Adam Bulgasem suona un rock and roll blues psichedelico che si può definire come senza tempo e che in questo caso trova il giusto compromesso tra sapori vintage e sonorità più ruvide stoner simili a un certo rock anni novanta o esperienze come quelle de gli Arbouretum. Rispetto a questi ultimi, tuttavia, sono sempre stati meno “monumentali” e questo è un grosso pregio. Qui poi in questo terzo disco, “No Keys”, ci sono pure meno spigolature che in passato e anzi si percepisce una certa fluidità, a un certo punto persino una forma di aerodinamica e di elasticità (vedi “Kudzu”) che si fa via via sempre più emergente così come procediamo con l’ascolto, fino all’approdo di una forma quasi embrionale e che ti fa per forza tirare fuori dal cassetto i rimandi alla immortalità Grateful Dead. Una mano, va detto, lo danno anche le guest ospitate nel disco. Su tutte, quella di Tim Green, chitarrista e soprattutto producer dell’album (tra gli altri gruppi prodotti negli ultimi tempi, Joanna Newsom, Howlin ‘Rain, Sleepy Sun, Fresh and Onlys, Golden Void) e che in qualche modo si può dire abbia aiutato i tre ragazzi a contenere il loro furore e incanalarlo nella giusta direzione. Ci sono poi Adam Parks alle tastiere (“Earth Blues”, “Jerusalem Cricket”, “Happy Death”) e Camilla Saufley-Mitchell alla voce sempre su “Jerusalem Cricket”, che fa parte della seconda parte – quello più “classica” – con i rock and roll blues psichedelici “Arcularies – Burke” e “Happy Death”. Più vigorosa invece la prima metà del disco che ha un taglio marcatamente stoner con rimandi che vanno di volta in volta ai vari tipo “Sunny Day Flooding” oppure “Wild Wash”, il sound virulento e acido di “Stir The Sea” e lo scorcio strumentale di “Blues Rot”, il blues neurale visionario “Earth Blues”. Come al solito, anche se con delle differenze rispetto ai due capitoli precedenti, i Dommengang si confermano un gruppo affidabile. Forse non hanno inventato nulla, ma quello che fanno, lo fanno bene e non sono dei venditori di sogni, ma di solide realtà, vi faranno venire voglia di farvi ricrescere i capelli e soprattutto potranno far venire la voglia di farseli crescere a qualche ragazzo che è stato (mal)educato a ascoltare un sacco di merda spacciata per roba alternative. Rock and roll.

75/100

Abronia, “The Whole Of Each Eye” (Cardinal Fuzz / Feeding Tube, 2019)

Secondo disco de gli Abronia, sestetto di Portland nell’Oregon, che dopo il debutto con “Obsidian Visions / Shadowed Lands” (Water Wing Records) si propone con questo spettacolare album su Cardinal Fuzz (Regno Unito) e Feeding Tube (USA) dal sound visionario e vintage psichedelico. A capo del gruppo, una vecchia conoscenza per gli appassionati di musica psichedelica, cioè Keelin Mayer (Eternal Tapestry) e che qui suona anche il sassofono; completano la formazione Benjamin Blake e Eric Crespo (Ghost to Falco) alle chitarre, Andrew Endres alla lap-steel, Amir Amadi al basso e lo spettacoloso James Shaver alla batteria e le percussioni. Il disco si intitola “The Whole Of Each Eye” e ha il marchio di fabbrica di Chris Hardman al mastering. Decisiva è l’impronta del lavoro di Eric Crespo nelle fasi di registrazione, un musicista che peraltro ha suonato spesso anche in Italia con i suoi Ghost To Falco e che nel gruppo – senza sottovalutare gli altri – ha un ruolo fondamentale. Senza sottovalutare gli altri perché sicuramente le composizioni del gruppo sono armoniose e peraltro complesse. Il rimando al genere progressive ci sta tutto anche per questa ragione oltre che per i toni solenni, incrementati dalle performance vocali di Keelin, e qualche sfumature gotica: cioè proprio “gotica” tipo le vetrate e le guglie del Duomo di Milano. Non goth anche se le venature sono per lo più scure invece che tendere verso una tensione cosmica luminosa e fluorescente.. Tutti i componenti del gruppo hanno modo di esaltarsi così in una successione di pezzi che si rincorrono in maniera circolare attorno a un centro costituito da dei recital sontuosi e che a tratti fanno inevitabilmente pensare a Nico (“New Winds…”, “Half Hail”), mentre altrove la stessa si lascia andare a interpretrazioni più “poetiche” e melodiose e cantilene ipnotiche (“Cauldron’s Gold”). Particolarmente epici alcuni momenti in della traccia “Half Hail” che ha un crescendo nel finale spettacolare forzato dal suono del sassofono che dà vita a una processione di fanfare maestosa e qui sì, viene un po’ da pensare a quei “nibelunghi” dell’epopea rock psichedelica del Nord Europa. Se la descrizione fatta fino a questo momento potrebbe fare pensare tuttavia a qualche cosa di lontano nel tempo e di troppo caratteristico, magari vi viene in mente roba noiosa del genere progressive psichedelico degli anni sessanta-settanta, vale bene la pena di sottolineare che invece si tratta di un disco perfettamente “avvicinabile”: l’immaginario è tutt’altro che immaginifico e fiabesco, ma – al contrario – elettrico, sa spingersi tanto in profondità grazie alle staffilate di chitarre, l’uso peculiare della lap-steel, quanto allargarsi con il groove del basso che ricorda un certo incalzare Black Angels e le vette raggiunte dalla voce e il suono dirompente della batteria. Forse ci sta ancora troppa “maniera”, si può scatenare maggiormente una certa free-form che sembrerebbe pure essere nelle corde di questo “combo” il cui sound ha un cuore che pulsa forte con una valvola analogica cui le lancette non saltano mai neppure un millesimo di secondo. Da tenere d’occhio.

66/100

Emiliano D’Aniello

Illustrazioni: “The Ipcress File” (Sidney J. Furie, 1965)