WILCO, “Ode To Joy” (dBpm Records, 2019)

L’ultimo disco dei Wilco è chiaramente un successo e non poteva essere altrimenti: Jeff Tweedy e i suoi compagni di viaggio sono probabilmente il gruppo “alternative” più popolare del globo e questo a prescindere dai gusti, va detto che è di suo è un grande merito perché significa che sanno coniugare una scrittura importante e arrangiamenti semplici, ma non banali, con un gusto melodico che apre a un mondo che troppo spesso si appiattisce su proposte che sono assolutamente prive di contenuti. Al contrario, sensibilità e impegno fanno parte dell’immaginario Wilco e lo stesso possiamo dire di una certa coerenza che li ha visti percorrere una strada lineare e senza prendere nessuna scorciatoia e che al contrario ha costituito un costante accrescimento del loro patrimonio artistico e musicale.

Ci sono fan anche storici del gruppo che già hanno eletto “Ode To Joy” (dBpm Records) non solo come migliore disco dell’anno, ma anche nel novero dei migliori mai pubblicati dal gruppo: un giudizio che è fatto sulle ali dell’entusiasmo ma che in fondo appare giustificato dalla grande qualità delle canzoni di questo disco, che dopo il deludente “Schmilco” (dBpm Records, 2016) alza il livello e riprende il percorso artistico di successi in sequela che da “Yankee Hotel Foxtrot” (Nonesuch, 2002) praticamente non si è mai interrotto e forse con un rinnovato sound per forza di cose più maturo, chiude il cerchio di questo decennio tirando – almeno sul piano del sound – le somme.

Con la solita compattezza, il gruppo si stringe in cerchio attorno alla figura del frontman e songwriter Jeff Tweedy, pubblicando un disco di “canzoni” e dove tutto quanto ha un suo senso compiuto. Il gusto negli arrangiamenti è sempre accorto e mai sopra le righe: è una compostezza però leggera, che altrove sarebbe solo noia e immobilismo intellettuale, mentre qui se pure si potrebbe criticare la continuità nel suono, poi pure se ti vai a prendere le canzoni una per una, trovi che ognuna abbia un significato solo e anche in se stessa.

I pezzi migliori, secondo me, sono “Bright Leaves”, “Before Us”, “Quiet Amplifier” e la ballad elettrificata “We Were Lucky”, gli ultimi due quelli con l’arrangiamento più interessante; canzoni come “Love Is Everywhere”, “Hld Me Anyway”, “An Empty Corner” hanno un taglio più classico: Bob Dylan, Bill Fay, reminiscenze della semplicità pop sensibile-Beatles. Meno interessanti per quanto mi riguarda pezzi più tipicamente pop e facili come “One And A Half Stars”, soprattutto il singolo “Everyone Hides” e “White Wooden Cross”. Ma sarebbe un errore bollare di “faciloneria” anche queste canzoni. Se dovessi scegliere una parola per descrivere questo album in effetti direi, “discreto”, che non è sufficiente, ma meglio e che non è l’espressione di un voto, ma descrive una qualità. È il marchio di qualità Wilco. Se proprio dobbiamo trovare un difetto a quest’album, pure in questo contesto, è che non ci sono difetti: non mi esalta particolarmente, ma dopo averlo ascoltato e riascoltato così tanto in questi giorni, anche “impegnandomi”, non riesco a trovare nessuna mancanza e/o insufficienza. Potrebbe essere male se questo significasse “ossessione”, ma qui invece è proprio una attitudine, tutto sembra succedere con quella stessa naturalezza con cui vengono assimilate le loro canzoni e allora tanto di cappello, bentornati.

75/100

Emiliano D’Aniello