THE NATIONAL, “I Am Easy To Find” (4AD Records, 2019)

Chissà se leggendo la mail ricevuta dal regista Mike Mills la notte del 3 settembre 2017, Matt Berninger avrà realizzato che quello poteva essere uno di quei momenti che cambiano la vita. Certo è che quella mail ha rappresentato il preludio di una delle collaborazioni artistiche più interessanti degli ultimi decenni: il risultato è un cortometraggio di 24 minuti diretto dallo stesso Mills e l’ottavo disco in studio del quintetto di Cincinnati. Titolo di entrambi i lavori: “I Am Easy To Find”. Influenzandosi e ispirandosi liberamente a vicenda, ma restando sostanzialmente due opere autonome, film e disco rappresentano un punto di svolta che permette sia a Mills che ai National di dare nuova linfa ai propri percorsi umani e artistici, uscendo dalle rispettive comfort zones e virando verso territori e dimensioni del tutto inesplorate. Mills racchiude un’intera esistenza in meno di mezz’ora e 160 scene in cui le visioni laterali di Terrence Malick e le riprese irrequiete di Paolo Sorrentino si tengono per mano. Il regista, lasciando scorrere le proprie visioni generate dall’ascolto dei National, mette in scena l’io in frantumi al cospetto di una società famelica che non lascia alcuno spazio autentico di appartenenza e condivisione.

Se da questa fortunata collaborazione Mike Mills dà vita alla sua opera cinematografica più riuscita, anche i National non scherzano in termini di svolte epocali: con 68 minuti di durata e 16 canzoni, “I Am Easy To Find” rappresenta il loro disco più complesso e audace. L’innovazione riguarda innanzitutto e ovviamente Matt Berninger. Il frontman, capace di sfiorare con voce profondissima le corde più intime dell’anima, è riuscito negli anni ad affermarsi come uno dei cantanti più carismatici e rilevanti nel panorama della musica indipendente. Berninger è osannato dal pubblico perché nessuno come lui sa dare voce a insicurezze e paure vissute quotidianamente. Innamorato fino all’inverosimile del proprio stesso fallimento, questa sorta di erede illegittimo di Leonard Cohen e Ian Curtis è stato il primo a rendersi conto che, dopo la straordinaria trilogia degli anni Zero, era grande il rischio che la formula dei National diventasse talmente consolidata da annoiare. Gli elementi innovativi esplosi in “I Am Easy To Find” erano infatti già in atto da “High Violet” in poi, e hanno avuto in Matt Berninger il principale fautore. In particolare, l’idea di coinvolgere la consorte Carin Besser nella scrittura dei testi è indice della volontà di inglobare nelle canzoni il punto di vista femminile passando da una dimensione di monologo a una dialogicità continua che attrae l’ascoltatore generando pathos ed empatia. Nell’ultimo disco tale passaggio è definitivo: probabilmente incalzati dai potenti flussi visivi di coscienza femminile del film di Mills, Berninger e compagni decidono di coinvolgere nel disco le cantanti Gail Ann Dorsey, Kate Stables, Eve Owen, Lisa Hannigan, Sharon Van Etten, Mina Tindle e il Brooklyn Youth Choir. Queste voci femminili accompagnano e addirittura a volte silenziano Berninger pervadendo di fragilità ed eleganza l’universo musicale dei National. Ne è un esempio in particolare la traccia di apertura dal titolo “You had your soul with you”, che sarebbe niente di più che la solita bella canzone dei National se a un certo punto non cadesse dal cielo la voce angelica della Dorsey che interrompe il cantato di Berninger, le chitarre spezzate e gli archi sublimi dei fratelli Dessner, lasciando sospesa in aria un’ammissione disperata: “I have ordered to my heart every word I’ve said / You have no idea how hard I died when you left”. Notevoli per la centralità delle voci femminili sono anche la title-track e “Where is her head”. Nella prima, le voci di Berninger e di Kate Stables si sovrappongono delicatamente e fanno da contrasto all’evoluzione meccanica della base musicale scandita da un ritorcersi su sé stessi di piano, tastiere, batteria e archi: “There’s a million little battles that I’m never gonna win, anyway / I’m still waiting for you every night with ticker tape, ticker tape”. Nella seconda, i soliloqui di Berninger e della Owen, avvolti da un crescendo orchestrale stile Arcade Fire, si sfiorano senza mai toccarsi, metaforizzando uno dei temi d’eccellenza dei National quale l’impossibilità di comunicare ciò che è dentro di noi. Altrove le voci femminili assumono invece la forma di cori spettrali, unici spiragli luminosi di un disco in cui imperano le tenebre (“Durst swirls in strange lights” in particolare, ma anche “Underwater”, “Her father in then pool” e la chiusa di “Oblivions”).

Anche le novità in ambito musicale sono molteplici. I National si lasciano alle spalle il minimalismo da camera con innesti elettronici di “Sleep Well Beast”, da cui salvano unicamente l’incedere felpato del piano (si ascolti “Hairpin Turns” per esempio, ma anche “Roman Holiday” e “So far so fast”, ballate che ricordano in particolare i Nick Cave and the Bad Seeds più recenti) e l’inconfondibile drumming di Bryan Devendorf che, costantemente lanciato in controtempo e in tutt’altra direzione rispetto al resto, ci ricorda che stiamo pur sempre ascoltando i National (“The pull of you” specialmente, e poi ancora “Hey Rosey” e “Rylan”). Le chitarre sembrano fare un passo indietro ma solo in apparenza: i fratelli Dessner sembrano due ragni acquattati che tessono silenziosamente la tela sonora su cui restano impigliati gli altri strumenti e le voci. Fondamentale è il lavoro d’orchestrazione di Bryce Dessner, che riaffiora per tutto il disco conferendo all’atmosfera generale un afflato sacrale à la Spiritualized.

Una menzione a parte merita “Not in Kansas”, ovvero 405 secondi di folk distorto in cui piano e violino accompagnano un flusso di coscienza cantato con le viscere e a denti stretti. Di fatto si tratta di una prosecuzione di “Sad Songs For Dirty Lovers” con altri mezzi: i paesaggi incontaminati e desolati dei sobborghi del Kansas sono lo scenario ideale per sviscerare i temi più cari alla band: dalla nostalgia per l’infanzia a quel senso di spaesamento che deriva dal non sentirsi parte di niente e nessuno (da qui il chorus “I am not in Kansas / Where I am, I don’t know where / Take me for a walk and blame this on the water dripping off the spear”). E poi ancora l’inconsistenza dei rapporti umani e le incurabili insicurezze personali (“My mother needs an army / But I’m leavning home and I’m scared that I won’t / have the balls to punch a Nazi. / Father, what is wrong with me?). Siamo all’apice dell’emozione quando affiorano le voci bianche di Dorsey, Hannigan e Stables, che eseguono un coro abissale e tutt’altro che consolatorio: “If the sadness of life makes you tired / And the failures of man make you sigh / You can look to the time soon arriving / When this noble experiment winds down and calls it a day“. C’è poco da discutere: siamo davanti alla lettera a cuore aperto che ognuno di noi vorrebbe dedicare alla propria terra originale.

Nel brano di chiusura del disco riaffiorano voci (questa volta il duetto è Berninger-Sharon Van Etten) e pianoforte per dare vita a una delle canzoni più melanconiche e senza speranza mai scritte dai National. L’andamento sospeso del brano, che sembra di continuo voler esplodere da un momento all’altro e invece finisce per estinguersi in sé stesso, ci ricorda un altro grande finale come “Videotape”, con cui i Radiohead chiudevano il loro settimo album “In Rainbows”. Si resta con l’amaro in bocca, e l’idea che forse abbiamo bisogno della bellezza di una stella distante per andare avanti: “Oh, the glory of it all was lost on me / ‘Til I saw how hard it’d be to reach you / And I would always be light years, light years away from you. / Light years, light years away from you”.

 

 

79/100

 

(Emmanuel Di Tommaso)