AMEN DUNES, “Death Jokes” (Sub Pop, 2024)

La scena finale di uno dei miei film preferiti è fatta così: due bambini escono da un portone di un vecchio palazzo, si guardano interdetti per pochi secondi e poi iniziamo a ballare. La scena si conclude con lo schermo che diventa nero e la comparsa di una citazione presa da una poesia di Rainer Maria Rilke, che dice “Let everything happen to you: beauty and terror. Just keep going. No feeling is final”.

Il passaggio da Sacred Bones a Sub Pop, il conseguente disco dal successo quasi sorprendente, un tour smezzato coi Fleet Foxes, le canzoni scritte per Liam Gallagher, l’abbandono di New York e un trasferimento che assomiglia quasi ad un ritiro tra le colline dell’Ulster, una malattia che per mesi lo ha debilitato fino a perdere una trentina di chili, la nascita della sua prima bimba, le sue prime lezioni di piano impartitegli da un santone locale di nome Jonichi, una pandemia di scala internazionale che per alcuni tratti è assomigliata alla fine del mondo, e chissà quanto altro che cartelle stampa e interviste uscite nelle ultime settimana non vogliono raccontare: nel leggere l’elenco delle cose accadute durante la vita degli ultimi sei anni di Damon McMahon, meglio conosciuto come Amen Dunes, Rainer Maria Rilke potrebbe anche scrivere di “beauty and terror”, ma il diretto interessato, tra l’altro appassionato di poesia otto-novecentestesca, forse la definirebbe – molto eufemisticamente – solo “vita”.

“Death Jokes” è l’album che in qualche modo prova a raccontare questi tratti di esistenza solo apparentemente sconnessi per costruire un nuovo racconto artistico, un nuovo episodio musicale sulla linea tracciata da Amen Dunes lungo la sua carriera. Dentro al disco McMahon incastra, seppellisce, mescola, distorce e stratifica strumentazioni e riferimenti, suoni e citazioni, campionamenti e melodie: drum machine, chitarre midi danneggiate, coristi digitali, il suono di un sarangi, tracce audio prese da spettacoli di stand-up comedy o da defunte luminari della musica suonata al piano e molto, molto altro ancora. Il risultato sono tre quarti d’ora di caos irrequieto, di malinconia chiassosa, di instabile inquietudine, di “beauty and terror” o – molto eufemisticamente – solo di “vita”.

“Ero stanco della musica a cui ero convinto di dovermi limitare”, è la dichiarazione che l’artista newyorchese affida alla nota di presentazione del disco, ed è il modo più efficace di spiegare come in “Death Jokes” assistiamo ad un’inedita e folgorante esplorazione sonora. Partiamo dai brani che ne hanno anticipato l’uscita: se “Purple Land”, questa ballata costruita su un oscuro riverbero, sembra perfettamente in stile Amen Dunes (quella specie di folk psichedelico e noir forgiato fin dai suoi esordi), e se “Boys” riprende quella sorprendente dimestichezza con la costruzione di melodie claudicanti ma efficaci dimostrata con il precedente LP “Freedom”, sono “Rugby Child” e “Round The World” a scompigliare le carte, a sparecchiare il tavolo, a scatenare una affascinante indisciplina autoriale e musicale. In entrambi i brani assistiamo a canzoni che sul più bello si rompono, si fratturano, e si ricompongono in forme contorte ma non per questo meno convincenti: l’iniziale litania della chitarra di “Rugby Child” lascia spazio ad un’esplosione electro-noise che sembra prendere di striscio terreni acid-house e UK-garage (sembra un po’ quello che era successo nel brano “Feel Nothing“, pubblicato due anni fa in modo davvero troppo estemporaneo, che peccato), mentre “Round The World” – forse il pezzo architrave dell’intero disco – tiene insieme la maestosità di una ballad sull’affascinante e inevitabile disordine del mondo con un incessare lento e instabile, con la voce di McMahon che viene coperta da inserti di campionamenti incomprensibili, echi e rumori fondo, percussioni che seguono ritmi diversi. C’è come la sensazione di essere al centro di una grande strada affollata di gente che parlotta e schiamazza, senza la possibilità di cogliere il senso di qualsiasi discorso.

Per certi versi, ascoltare “Death Jokes” potrebbe risultare un’esperienza frustrante: se ci intestardiamo a inseguire un filone, una melodia, un percorso sonoro, ben presto dobbiamo fare i conti con la volontà deliberata di Amen Dunes di complicarci le cose. Succede in “Joyrider”, in “Predator”, in “Solo Tape”, in “Poor Cops”. E poi, come capita con i suoi dischi, è solo con l’ascolto ripetuto che se ne comprende la grandezza: il fascino di “Death Jokes” sta nel comprendere che c’è bellezza nascosta nel mondo che brucia, nel disordine inquieto dei nostri tempi e delle nostre vite, e forse il caos è proprio la nostra natura più profonda. Se le canzoni di questo album si rompono e prendono traiettorie imprevedibili è perché questo accade ad ognuno di noi, almeno una volta nella vita. Il formicaio dell’umanità, il formicaio brulicante delle nostre emozioni, è qualcosa che sarebbe inutile, dannoso e disturbante inquadrare in rigidi codici di condotta: non è così che siamo fatti, e non è così che funzioniamo. Per dirla con le parole dell’autore: “I Don’t Mind”, (“non importa, va bene così”), come dice il titolo di un altro pregevole pezzo del disco. O per dirla come Rainer Maria Rilke: “Let everything happen to you: beauty and terror”. Scegliete voi a quale poeta affidarvi.

77/100

(Enrico Stradi)