THE NATIONAL, “High Violet” (Beggars Banquet, 2010)

Nel vasto bacino di musicisti influenti che ruota attorno a Brooklyn, i National si sono sempre differenziati per aderire a certi stilemi tradizionali del fare rock, in contrasto con una scena dove il sovvertimento delle consuetudini è la norma. Questo perchè i cinque ex colletti bianchi hanno sempre anteposto alla sperimentazione l’urgenza di farsi portavoce dello scazzo di una generazione, o perlomeno di gente che condivide le difficoltà e le paure di trovarsi a diventare adulti in un certo tempo e luogo. I National ci hanno fornito finora una spalla su cui piangere, una cosa old school che in pochi offrono oggi.
Questo nuovo “High Violet” rappresenta l’album della consacrazione della band nel salotto buono del rock indipendente, basta vedere i cammeo dell’album (da Bon Iver a Sufjan Stevens), ma sapevamo già delle loro frequentazioni “giuste” dal cast all stars che i gemelli Dessner erano riusciti a mettere assieme l’anno scorso per il progetto “Dark Was The Night”. Mi chedevo se questo li avesse resi più radical chic, più propensi alla sperimentazione cerebrale rispetto al passato: niente di questo. “High Violet” è l’album della maturità dei National; è la manifestazione di una piena consapevolezza acquisita attraverso l’affinamento e la messa a fuoco del loro vocabolario espressivo.
A livello sonoro i National mettono a punto uno stile personale che supera tanto le ritmiche tese di matrice new wave quanto le ballate pianoforte e violoncello. Il suono di “High Violet” è costruito innanzitutto su un’ossatura ritmica viscerale, che i fratelli Devendorf orchestrano attraverso pulsazioni cupe di cuore e di pancia. Bryan in particolare lavora ostinatamente i tamburi trascurando piatti e rullante, facendo vibrare i brani di un ribollire sotterraneo, magmatico. Su di esso le chitarre dei Dessener sferragliano ora ostinate, cerebrali, come cattivi pensieri che non possono essere scacciati, ora stendono tappeti ariosi su cui rotolano i rimurginii di Berninger.
Al cuore, le canzoni parlano ancora della vertigine di vivere un tempo che gira troppo veloce, e della paura che il moto centrifugo sputi le persone ai margini, nelle periferie dell’invisibilità. C’è ancora il misto di repulsione e fascinazione per la grande città, quello di gente che viene dall’Ohio e continua a portarsi addosso una leggera aria di topi di campagna, come nel quasi-inno allo sradicamento di “Bloodbuzz Ohio” o nella bellissima “Little Faith”. Quello che emerge più che in passato è una dimensione meditativa, quasi spirituale. Ecco quindi che la voce di Matt Berninger si fa meno canzone e più canto, nello snocciolare litanie di smarrimento e vere e proprie invocazioni. “Afraid of Everyone”, con i cori spettrali di Sufjan, “Anyone’s Ghost” e “Runaway” sono preghiere pagane, implorazioni di misericordia senza nessun dio a raccoglierle.
Con questo lavoro i National hanno saputo superare i paragoni del passato per diventare finalmente e inequivocabilmente se stessi. Approfittiamo del ritardo di questa recensione per decretare “High Violet” uno degli album migliori dell’anno 2010.

90/100

(Stefano Folegati)

11 novembre 2010

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