AFRICA FOR AFRICA No. 7: la Glitterbeat

Nata come una “costola” della Glitterhouse, la Glitterbeat, capitanata da Chris Eckman, che oramai si è stabilito in pianta stabile in Europa, a Lubiana in Slovenia, è diventa nel tempo una delle realtà più interessanti a livello continentale per quello che riguarda la diffusione di musica che abbia una dimensione internazionale e che miri a contenere e diffondere suoni, principi, ideologie che sono universali.

Si tratta di un lavoro che guarda al passato, parliamo di tradizioni che in alcuni casi non hanno tempo, sono millenarie e che seguono il cammino dell’uomo dalle origini fino ai giorni nostri, ma che guarda al futuro e che in ogni caso è “contestuale”: sono lavori discografici sul pezzo e che in molti casi sono destinati a diventare dei classici.

L’Africa, e qui veniamo a questo nuovo capitolo della rubrica, è chiaramente uno dei bacini di riferimento, un patrimonio che merita di essere scoperto e portato alla luce e di cui in questo “reprise” oppure riepilogo delle pubblicazioni della label negli ultimi mesi, fino all’album di Kel Assouf, “Black Tenere”, uscito il mese scorso.

Qui si presentano gli ultimi album quindi di Bixiga 70 (ne abbiamo già parlato), Fofoulah, Kel Assouf, ma si fa una doverosa “volata” anche su altre realtà portate alla luce dalla Glitterbeat: Raul Fernandez Mirò aka Paul Refree; Gaye Su Aykol, l’Orkestra Mendoza, Ustad Saami.

Già annunciate le prossime pubblicazioni: i Mekons con “Deserted” (29/03), Altin Gun (26/04) e soprattutto il secondo LP di Ifriqiyya Electrique, il progetto di Francois R. Cambuzat e Gianna Greco e che prosegue gli stessi contenuti già mostrati nel primo album con il rinnovamento della tradizione musicale nordafricana in una dimensione elettrificata. Sono sicuro che sarà uno dei dischi dell’anno. Ne parleremo a tempo debito.

BIXIGA 70, “Quebra Cabeca” (2018)

Quando i Bixiga 70 si sono formati nel ventre della città di San Paolo era il 2010 e il Brasile e la storia dell’intero continente sudamericano sembrava andare in una direzione decisamente differente rispetto a quello che succede adesso in un continente dominato dalla figura oscura di Jair Bolsonaro, il leader del Partito Social Cristiano brasiliano, eletto presidente dal primo gennaio 2019. Un exploit in parte annunciato e che neppure quella che è stata una specie di rinascita a sinistra con il “ritorno” del carismatico Luiz Inacio Lula da Silva, il carisma di Fernando Haddad, la verve di Manuela d’Avila è riuscito a fermare in un grande paese dove, come a occidente, l’anti-politica ha avuto la meglio. In mezzo, la storia di questo collettivo che a ottobre 2018 ha pubblicato il secondo album in studio su Glitterbeat, “Quebra Cabeca”, che oltre che essere una conferma, costituisce anche una varianza rispetto al passato. Il disco è infatti probabilmente meno selvaggio rispetto al passato e più mirato a ampliare il target di riferimento e dopo i riconoscimenti ottenuti a livello internazionale. Per ottenere questo effetto è stato ingaggiato un co-producer importante come Gustavo Lenza (Céu, Marisa Monte…) e il gruppo ha ampliato la strumentazione, dando vita a un album più compatto e più allineato a standard definitivi nel genere afro-beat e/o afro-jazz. Chiaramente tutto condito con quelle sfumature “latine”, che comunque secondo il concept si considerano in ogni caso discendenti dal continente africano, così come del resto è tutto ciò che oggi costituisce la stragrande maggioranza della cultura del paese. In effetti resta forte il contenuto politico e internazionalista in un album comunque solo strumentale, un trionfo di fiati e allegorie nel campo dello stile afro e accentature funky, tempi a tratti frenetici dettati dal suono sincopato delle chitarre e il groove delle tastiere (spettacolari in “4 Cantos”). Manca forse una componente più sperimentale e acida, che si sviluppa in casi specifici come “Torre”, “Camelo”, che richiamano la natura primaria della band, ma “Quebra Cabeca” non è comunque un disco serioso. È invece un disco “serio”, che si propone come autentico manifesto di questo suono che poi è un “puzzle” (ovvero, “Quebra Cabeca”), però quando poi metti tutte le tessere in ordine sul piano il risultato non è solo quel ritorno al passato (cioè alle radici africane, che poi sono comuni a tutti gli esseri umani), ma con un occhio critico al presente, nel cuore di Bixiga e nella città-manifesto del potere economico e finanziario del continente sudamericano, guarda al futuro nonostante tutto con un ottimismo e una fiducia soprattutto nel prossimo, che è contagiosa. Quindi positiva.


FOFOULAH, “Daega Rek” (2018)

Dopo il bellissimo primo LP eponimo pubblicato nel 2014, su Glitterbeat ritornano i Fofoulah, ensemble londinese che riunisce assieme la cultura musicale sotterranea della capitale del Regno Unito, una lunga tradizione che affonda le radici all’inizio degli anni ottanta e la dimensione “multi-etnica” dei sobborghi della città e si mescola con quella del rave (il pensiero va inevitabile e in questi giorni in particolare ai Prodigy come massima manifestazione anche a livello popolare e sublimazione di questo mondo e realtà sotterranea che poi si ispira a quella hippie degli anni sessanta nei contenuti e nella filosofia, prima di divenire solo “moda”) della fine degli anni ottanta e poi degli anni novanta, poi quella della musica africana e nello specifico di paesi dell’Africa Occidentale, come il Gambia e il Senegal. La lingua usata in questo album è solo e esclusivamente il “wolof”, a partire dal titolo, che pone una questione significativa (“Daega Rek” significa “verità”) sul piano etico e filosofico e che i testi di Kaw Secka traducono in un manifesto sciamanico che mescola tensioni dramatiche e un futurismo distopico, dimensioni sotterranee che si rivelano in una elettronica compulsiva, ossessioni trance. Rispetto al primo LP non ci sono collaborazioni più o meno eccellenti (nel caso precedente: Ghostpoet, la vocalist Iness Mezel, il gambiano Juldeh Camaraal) e un lavoro molto più intensivo da parte del tastierista e producer Tomas Challenger. Parlare di afro-beat è una forzatura, da registrare peraltro rispetto al passato anche la pressocché totale assenza del suono dei fiati, ma nei suoi principi di quel movimento musicale si trova una connessione con questo album-manifesto, ma i suoni armonici qui sono distorti in una elettronica glitch, texture dub e drum and bass ipnotico. “Daega Rek” è un disco decisamente “avanti”, possiamo trovare delle propagini di questo tipo di suono nei lavori della Nyege Nyege Tapes, ma qui il livello della produzione è altissimo e fa la differenza. Peccato che non siano considerati in maniera internazionale come meriterebbero, perché questi qui hanno un soud che “spacca” e che andrebbe suonato in ogni club e realtà da dance-floor del pianeta.


KEL ASSOUF, “Black Tenere” (2019)

Il fenomeno “tishoumaren”, il boom successivo al riconoscimento internazionale della grandezza dei Tinariwen e che ha poi portato alla ribalta i vari Tamikrest, Terakaft e fino al più popolare e “allineato” Bombino, si è probabilmente esaurito. Questo non significa che il genere sia morto, ma che semplicemente non costituisce più una novità in assoluto e pure gli ascoltatori che avevano accolto con grande entusiasmo questa ondata di energia e di misticismo del deserto e che arrivava dalle regioni del Sahara e pure sulla scia di quel momento storico riconosciuto come “primavera araba”. Probabilmente una grande incompiuta sul piano politico e sociale, ma un fenomeno che ha tutto sommato aperto una “porta” tra il mondo occidentale e quelle regioni che storicamente sono state “inaccessibili” per motivazioni di carattere geografico e che hanno rivelato comunque che in quella parte dell’Africa qualche cosa di muove. A dispetto di tutte le problematiche e inaccettabili contraddizioni, l’Africa è un continente vivo, ma se la next big thing del genere arriva da Bruxelles invece che dal Mali evidentemente la strada da compiere è ancora lunga. Però c’è un messaggio in questo album di Kel Assouf, che è nato è cresciuto nel Niger, ma vive a Bruxelles da undici anni, dove ha formato una famiglia e ha tre figlie che sono a tutti gli effetti cittadine europee (sono nate in Belgio) e che va oltre quella che è una sola malinconia e esaltazione mistica del mito del deserto. Certo, Kel Assouf appartiene a uno dei popoli del deserto, i Tamashek, che la storia e la guerra hanno voluto staccare dalle loro radici, ma in questo album intitolato “Black Tenere” (che poi significherebbe, “pecora nera”) il “tuareg” apre a influenze e identità più ampie. Il batterista è Oliver Penu, un giovane musicista jazz belga, l’altra chitarrista è Anana Ag Haroun, cantautrice Ishumar di seconda generazione del Niger, anche lei vive a Bruxelles. Soprattutto alle tastiere c’è Sofyann Ben Youssef, il producer tunisino, mente del progetto e già pilota del progetto AMMAR 808. E la sua mano sapiente qui si sente eccome, specialmente in suoni come quelli di “Ariyal” oppure le tastiere di “Taddout”, una delle tracce più evocative dell’album alla pari dell’altra ballad “Tamatant”. Quello che colpisce però sono anche influenze più ampie rispetto ai soliti Led Zeppelin, amati e omaggiati anche dalle più giovani band del genere. Kel Assouf ama lo stoner rock e i suoi riff di chitarra hanno effettivamente quegli stessi attacchi acidi del genere e sorprende poi come questo si combini al sound più puro “tuareg” e poi alla incredibile e vigorosa batteria di Oliver Penu, che nei pezzi più potenti dà decisamente prova della sua bravura. Forse questo disco esce fuori tempo massimo, ricollegandoci all’apertura di questa recensione, ma è una ragione per superare il concetto di “moda” e aprire alla evoluzione di un genere che in fondo è ancora a uno stato di sviluppo iniziale.

Ancora.


REFREE, “La otra mitad” (2018)

Raul Fernandez Mirò aka Raul Refree è un compositore, producer e cantante spagnolo classe 1976. È nato e vive a Barcellona e la sua musica è quella che si può definire come il punto di incontro tra avanguardia musicale e reinterpretazione della tradizione musicale del suo paese. Non a caso si sprecano i confronti con musicisti come David Grubbs oppure Jim O’Rourke e molti hanno voluto presentare in Italia questo musicista e il suo album su Glitterbeat, raccontando della sua collaborazione in passato con Lee Ranaldo. Ma francamente se pensate di trovarvi davanti a qualcosa che possa ricordare i Sonic Youth, siete fuori strada. Pensate invece a Ry Cooder e considerando che in larga parte “La otra mitad” sia una colonna sonora, vi dico che inevitabile dovete pensare a “Parix, Texas” e le sue musiche indimenticabili. Il disco è infatti nato dalla raccolta di produzioni precedenti di Paul, ma pure da tracce composte letteralmente in loco durante le lavorazioni del film “Entre dos aguas” di Isaki Lacuesta, un dramma che esplora il mondo del flamenco e recitato da attori non professionisti. Il rapporto tra il musicista e il regista e tutta la squadra che ha lavorato al film, è stato molto forte, diretto, Lacuesta parla di “Dead Man” e il rapporto tra Neil Young e Jim Jarmusch. Ma Paul dice di essersi invece ispirato a un’opera fondamentale come “Jesus’ Blood Never Failed Me Yet” di Gavin Bryars e in fondo questo accostamento ci sta benissimo per quello che è il drammatismo reso con tracce per lo più suonate con chitarra in una maniera minimale e che incontrandosi con registrazioni sul campo, remiscelate e con effettistica reverse, rendono un effetto straniante e assolutamente particolare. Lasciate stare Yann Tiersen e questa roba sofisticata e troppo “francese”, di derivazione classicista e caliamoci in una dimensione che è melting-pot autentico e l’ascolto di un disco che è veramente almeno interessante e particolare.


GAYE SU AYKOL, “Istikrarli Hayal Hakikattir” (2018)

Mi sbilancio senza nessuna paura di sbagliare: Gaye Su Aykol è molto più che una degli artisti più interessanti e bravi a livello internazionale. Semplicemente, in circolazione non c’è nessuno (ripeto: nessuno) che come lei riesca in un format comunque “pop” (ma parliamo comunque di arte, non di solo intrattenimento) a riassumere quella che si può considerare una cultura derivativa dal crogiuolo di popolazioni che hanno storicamente abitato le coste del Mediterraneo, così raccogliendo anche ogni spinta in questa direzione dall’interno e diffondendo e ritornando poi a loro volta i risultati moltiplicati per enne volte e che hanno costituito e costituiscono ancora oggi quel reale patrimonio e che poi dovrebbe essere quello su cui si dovrebbe fondare quella grande idea di Europa. Che lei venga da Istanbul, guarda caso dove hanno fatto rotta di recente i Dirtmusic di Hugo Race e Chris Eckman (il “padrino” della Glitterbeat, che ha già pubblicato il secondo LP dell’artista e cantante turca), la capitale del paese più carico di contraddizioni forse della intera storia dell’umanità, non è un caso. Le canzoni di “Istikrarli Hayal Hakikattir” sono slegate da ogni spazio specifico e sono senza tempo. I testi si rifanno a quella che la stessa artista ha voluto definire in primo luogo come “pratica del sogno”, la maniera in cui guarda al mondo e la cultura che la circonda, cercando una propria identità, ma senza alienazione e spinte interiori. Il suono? In primis c’è la ripresa di quel pop-rock “anatolian” degli anni sessanta-settanta, poi una commistione di sfumature che vanno da oriente e occidente e generi come flamenco, la chitarra tzigana, il jazz notturno e comunque quel tipo di atmosfera che esalterebbe Nick Cave (alla fine poi tutto sommato Istanbul e la sua scena musicale furono letteralmente riscoperte qualche anno grazie al connubio tra il regista Fatih Akin e Alexander Hacke, spalla a spalla nel successo di “Gegen die Wand” e poi sublimato con il documentario “Crossing the Bridge – The Sound of Istanbul” nel 2005), fino al “western” e una attitudine wave con l’uso di elettronica e strumenti a fiato e soprattutto scariche di chitarra elettrica e profondità del suono di tastiere che rimandano a incantatori di serpenti. Al centro comunque ovviamente la spettacolare e fatale voce di Gaye Su Aykol, una interprete incredibile. Il riferimento a PJ Harvey secondo me è una forzatura, questa artista è invece fatale, ammaliante come potrebbero essere Lydia Lunch, Marianne Faithfull… Ma se proprio devo (di nuovo) sbilanciarmi, dico che non sentivo nulla del genere da quando è tragicamente scomparsa la grandissima Lhasa de Sela. Penso che possa bastare per richiamare all’ascolto di questo bellissimo disco.


ORKESTA MENDOZA, “La Caminadora” (2018)

“La Caminadora” è un dischetto pubblicato alla fine del 2018 e che contiene sette tracce del collettico Orkesta Mendoza di Sergio Mendoza. Nato a Nogales, Sonora, ma poi cresciuto dall’altra parte del confine, nell’Arizona, Mendoza e il suo gruppo sono portavoce del patrimonio musicale e culturale di quella terra dove i confini sono tracciati sulla mappa e costituiscono e continueranno a costituire uno dei temi più dibattuti del nostro tempo, ma che in realtà non esistono veramente. Come tutte le righe tracciate su di un pezzo di carta del resto. A cavallo tra il Messico e gli Stati Uniti, Mendoza è chiaramente finito a collaborare con il giro di musicisti di Tucson, quello dei Calexico tanto per intenderci, e città dove ha registrato questo EP con il suo gruppo (Jaime Peters, Sean Rogers, Marco Rosario) e un paio di guest (Quetzal Guerrero e Brian Lopez, adesso titolare del progetto XIXA) e che sette pezzi selezionati e revisitati per l’occasione. La scelta di non avere trattato particolarmente le registrazioni, a detta di Mendoza, regala agli ascoltatori il meglio del sound dell’Orkesta perché ne rivela la natura più autentica. Effettivamente il suono è grezzo, autentico e polveroso, allo stesso tempo istrionico in un trionfo di fiati e ripresa del materiale della tradizione mariachi, cumbia e suoni latini in una chiave acida non estrema come quella dei Sonido Gallo Negro ma che verte più in una direzione surf in ogni caso accattivante. Selvaggio, ma perde colpi dopo un paio di ascolti, soprattutto se non siete dei grandi estimatori del genere.


USTAD SAAMI, “God Is Not A Terrorist” (2019)

Questo qui è un disco coraggioso e importante, ha un valore artistico, ma anche storico e documentale enorme e la sua bellezza è eterna, affonda le sue radici nella storia dell’uomo e la musica arriva a noi, oggi, qui, tramandata di generazione in generazione da più di mille anni. Siamo in Pakistan. Qui Il Maestro Ustad Naseeruddin Saami, 75 anni, è l’ultimo erede di una tradizione musicale microtonale e multilingue (farsi, sanscrito, hindi, l’antica lingua vedica, arabo, urdu…) e di un patrimonio le cui prime tracce risalgono a prima che Maometto cominciasse a predicare la rivelazione. La musica si chiama Surti, Ustad Saami è l’unico e ultimo rappresentante di questa lunga tradizione, che si esaurirà alla sua morte, non ci saranno successori in una regione del mondo che forse più che altre, risente fortemente di una guerra ideologica tra religioni e che nel Pakistan si risolve nella condanna di tutto ciò che si consideri precedente al grande profetta Maometto. Pare vi sia un detto, secondo il quale vi sia una regione dalla quale provengano tutti i più grandi cantanti indiani e quel posto sarebbe il Pakistan. Se sia del tutto vero oppure no, questo non lo possiamo dire, certo ancora oggi dobbiamo considerare che quel confine tra due delle nazioni più potenti del mondo e più ricche di contraddizioni, sia molto labile e che la tensione millenaria, che si è andata sempre più ad incentivare nel corso dei secoli, sembra lontanissima da potersi allentare. Eppure è proprio questa tensione che si traduce nella incredibile musica di Ustaad Saami, “God Is Not a Terrorist”, a partire dal titolo, è un’opera coraggiosa, potente, che si sviluppa da una sola nota e poi ne conta 49 invece che le sette semplici occidentali sviluppandosi su di una scala mista e che ha lo scopo spirituale di trovare l’equilibrio della pace interiore attraverso il canto. I testi, in una tradizione che è precedente a quella della musica Qawwali e si chiama Khayal (“immaginazione”), seguono la melodia e in forma casuale combinano domande e risposte. Cantare qui, quindi, è ascoltare e il disco è una grande esperienza e un viaggio interiore e subliminale senza pari, registrato in una maniera che è essa stessa un rituale: il maestro ha voluto registrare l’intero disco tutto di seguito nel corso di una intera notte, concedendosi una breve pausa solo per un pasto. Descrivere queste musiche, che si sviluppano e sono completamente incentrate sull’uso delle espressioni vocali, è tanto facile quanto difficile: il suono dell’harmonium combinato alle percussioni minimali, accompagna il recital di Saami che assume forme deliranti. Al mattino, dopo una notte intera di registrazioni, i musicisti apparivano sfiniti dalla lunga sessione di registrazione, il maestro continuava a avere una energia incredibile, come se quello stesso rituale lo avesse reso più forte, splendente e rivelatore del suo grande potere. Il disco entra di diritto tra quelli che considero fondamentali e in classifica prende un posto molto alto e indefinito, come la cima spirituale di questo grande uomo.

(Emiliano D’Aniello)