TIRZAH, “Devotion” (Domino, 2018)

“Eleven straight-up love songs”: quando hanno chiesto a Tirzah di raccontare il suo album lei ha risposto così. Una frase che può non significare assolutamente nulla – a metà tra la banalità e il disinteresse – oppure può essere esattamente risposta più sincera che la diretta interessata poteva dare. Indovinate un po’? È la seconda.

Undici canzoni d’amore di cui vi accorgerete di sentire il bisogno: dentro a “Devotion” c’è tutto quello che serve per non sentirsi soli. Un racconto puro e schietto di tutte quelle variegate sfumature ad intensità variabile che sono le emozioni e gli affetti delle persone, di cui Tirzah è autrice e interprete in maniera educata ed elegante. A spalleggiarla è la producer e amica Mica Levi aka Micachu, che confeziona per le strofe delle canzoni di “Devotion” un pattern di suoni morbidi e luminosi, minimali, mai ingombranti.

Tutto il delicato ecosistema sentimentale espresso in versi di Tirzah si appoggia infatti su soffici tappeti di melodie decostruite e ripetute in loop dal sapore rotondo e accogliente, un po’ come a dire che se si vuole parlare di fragilità e insicurezze almeno lo si faccia in un luogo protetto, in cui la ripetizione diventa refrain e rassicurazione – viene in mente per esempio Arthur Russell nelle sue canzoni sulla sfiga, sull’amore, sulla perdita, sulle combinazioni selvagge.

In uno spazio così sicuro e confortevole Tirzah si sente a suo agio e può mostrare tutto il suo candore, sia nei testi che nel cantato. Nella traccia che apre il disco – “Fine Again” – la trentenne dell’Essex si prende tutto il tempo per intonare il ritornello in tutte le sfumature che le vengono in mente, dilatando la vocali e sperimentando diverse sensazioni di morbidezza nella voce. La stessa morbidezza che assume forme sinuose in “Do You Know” e “Gladly” in cui caldissime venature r’n’b vengono impreziosite dall’infinito ripetersi di beat dalla fascinosa porosità analogica. Sono pezzi, questi, che se iperprodotti potrebbero regalare fortuna e denaro diventando hit zuccherate da dare in pasto alle radio – prendete “Go Now”, per esempio: ve la immaginate pimpata e boostata? Verrebbe fuori una roba à la Destiny’s Child, con l’aggravante del ritardo di un decennio. E invece per fortuna all’ascolto dei brani di “Devotion” si avverte altro, quasi una sensazione di imperfezione, o ancora meglio, di assenza: ma dietro all’opera decostruzione delle melodie e all’approccio minimalista nelle produzioni c’è la cosciente scelta di dare significato a quello che non si ascolta, ai buchi di suono, alla semplicità delle costruzioni. Di restituire purezza e candore.

A guadagnarci è sicuramente l’impatto emotivo dell’album, e visto che si tratta di canzoni d’amore non è certo cosa di poco conto. Nell’asciuttezza dei suoni si celano battiti cardiaci che spesso finiscono con lo stringere il cuore: capita per tutta la durata dell’album, ma la cosa diventa evidente nella desolazione di “Basic Need” e “Say When” – così diverse, così simili.
Ad uscire fuori da quel mood di suoni e voci ovattate è invece “Holding On”, un piccolo gioiellino dal fascino dancey che in realtà di disteso e festoso ha ben poco: ma questo che c’entra, di fronte alle piccole tragedie enormi della vita mica è vietato ballare. Ben venga quindi, e anzi, l’ossimoro finisce con il farci commuovere e sorridere.

80/100

(Enrico Stradi)