LEON BRIDGES, “Good Thing” (Columbia Records, 2018)

Il nuovo album in studio di Leon Bridges? Una mezza delusione. Il cantante e musicista di Fort Worth, Texas (ma è nato ad Atlanta in Georgia) mi aveva così entusiasmato con la pubblicazione del suo primo disco nel 2015 (“Coming Home”, Columbia Records) che giustamente aspettavo in questo caso di trovarmi davanti a una conferma e invece diciamo che “Good Thing”, a dispetto del nome, non si può considerare a tutti gli effetti esattamente un bel disco e questo sebbene (o forse proprio perché) la produzione sia, come dire, di prima scelta. Quindi probabilmente condizionata anche da ragioni di marketing che poi secondo molti revisionista adesso sussistevano anche per quello che riguarda la pubblicazione proprio di “Coming Home”, considerato adesso poco originale e comunque poco sincero per un artista considerato troppo giovane e con poca personalità, proprio come se dedicarsi alla musica soul sia necessariamente qualche cosa per vecchi oppure per un tipo noioso come Nick Waterhouse. Tutte balle chiaramente: del resto Stevie Wonder era in testa alle classifiche quando aveva solo 13 anni e “Fingertips” è un pezzo che ancora oggi sfido chiunque a fare di meglio.

Quindi la Columbia Records aveva puntato invece forte su questo ragazzo che ricordava tanto Sam Cooke sin dal primo momento: nonostante quanto detto poc’anzi del resto i confronti relativi la qualità del suo primo disco (accolto molto positivamente sia da pubblico che critica) si sono sprecati e forse sono stati in parte anche questi la molla a cercare in qualche modo di rinnovare quello stile che evidentemente ai big della label sarà sembrato forse troppo “vintage” per sfondare. Affidata la produzione a un “influencer” come Ricky Reed e confermato in larga parte lo staff che ha lavorato al primo disco e in particolare gli autori delle canzoni, qui Leon Bridges si dà quella che si potrebbe definire come una vera e propria spolverata. Lasciate quindi pure perdere Marvin Gaye (la cui lunga eco è comunque chiaramente riscontrabile) e prendete come punto di riferimento quel groove funky che ricorre nella musica neo-soul contemporanea, che può essere più o meno edulcorato a seconda delle occasioni oppure persino dancereccio (“Forgive You”, “If It Feels Good (Then It Must Be)”, “You Don’t Know”), così come allo stesso tempo mi sento di nominare (rispettosamente) proprio il caro vecchio “Little” Stevie come principale punto di riferimento in “Beyond” e la stessa “Forgive You”.

Che dire. C’è quindi comunque spazio poi anche per un paio di pezzi come “Mrs.” e “Georgia To Texas” che uniti alle indubbie qualità vocali di Leon, giustificano in ogni caso l’ascolto di un disco che è comunque in larga parte piacevole, rilassante, sexy e adatto alle vostre serate più intime e da passare in compagnia di qualcuno di speciale oppure anche da soli.

62/100

(Emiliano D’Aniello)