FEIST, “Pleasure” (Interscope, 2017)

“Pleasure” è un album epicureo: il piacere di cui tratta è un oggetto da analizzare e comprendere, e non un’onda a cui abbandonarsi. Epicuro e Leslie Feist hanno in comune l’interrogarsi sulla natura del piacere e della felicità, non dandola per scontata, per fondare un’etica del vivere. “Etica” è un altro concetto che si confà alla cantautrice canadese: Feist può fare solo musica che riflette le sue convinzioni e il suo essere in questo momento della vita.

Questo la porta ad uscire a sei anni di distanza dal precedente “Metals” con un album sommesso, meditativo, in cui Leslie si spoglia in gran parte dell’eclettismo che la contraddistingueva. C’è tutta un’introspezione sonora che riflette quella spirituale; c’è un concentrarsi su sé stessa, voce e chitarra, abbandonando la baldanza che le permetteva di spaziare dai Bee Gees a Nina Simone. Come un pittore che in gioventù abbia prediletto la pittura dal vivo e una tavolozza ricca di toni, e con la maturità sia arrivato a ridurre via via la gamma cromatica e privilegiare la pittura di ricordo, di elaborazione, così Feist ha ridotto all’essenziale il suo vocabolario espressivo.

Canzoni scheletriche appena addolcite da cori sovraincisi; lo stile chitarristico si fa ancora più viscerale, percussivo, alterna la carezza allo strappo; la voce è ora fragile, ora trasognata, come a sussurrare una ninna nanna a sé stessa. E’ una formula che non cerca né offre il gancio facile, ma che ripaga l’ascolto ripetuto. Esemplari in questo senso la title track introduttiva, le successive “I Wish I Didn’t Miss You”, “Lost Dreams”, che a dispetto della sobrietà di mezzi oscillano di una tensione sotterranea, di un’inquietudine profonda.

Con “Get Not High, Get Not Low” (epicurea perfino nel titolo) i cori e gli arrangiamenti si rimpolpano seppur alternandosi a strofe evanescenti di dialogo interiore: così come la voce di Jarvis Cocker su “Century”, lontana dal potersi chiamare “duetto”, ammonisce sulla fragilità del vivere come un sinistro grillo parlante, costringendo Leslie a rispondere con il crescendo strumentale più energico dell’album. Anche i cori su “A Man is Not His Song” e “Any Party” sembrano mediati da uno schermo di riflessione, come lontani ricordi dell’era spensierata dei Broken Social Scene, incrinati dagli anni e dalle disillusioni.

“The Wind” ha un andamento più uniforme, sicuro, risuona di piccoli passi verso un equilibrio o almeno una presa di coscienza, come quella di “I’m Not Running Away” che affida finalmente a un blues quadrato una rivendicazione che sa di liberazione e di richiesta d’aiuto al tempo stesso. Chiude l’incantevole “Young Up”, resa all’inevitabile e esortazione al vivere nonostante tutto.

E’ percepibile, palpabile in Feist la necessità e la volontà di schiettezza, di onestà nel proprio percorso artistico. Feist, che fu la musa dell’indie rock canadese nel suo decennio d’oro, la complice di Peaches nelle sue scandalose scorribande, la ragazzina che quasi perse la voce nella militanza punk, la raffinata chanteuse, la two hits wonder di “Mushaboom” e “1234” è ora una donna di quarant’anni che guarda fuori e dentro della propria vita, e che stando alle interviste ha anche pensato di smettere di fare musica se non ne avesse ritrovato il senso. Per fortuna si è ricreduta.

75/100

(Stefano Folegati)