THE SHINS, “Heartworms” (Columbia, 2017)

Da quando The Shins hanno smesso di essere una band per diventare una ditta unipersonale con dipendenti a contratto, i loro dischi sono più affollati che mai. Voci, suoni, cori più o meno sintetici si intrecciano in barocchismi produttivi come non succedeva mai ai tempi dei primi tre album, giocati invece sul filo dell’essenzialità. La solitudine artistica di James Mercer moltiplica i suoi alter ego sonori, come se stessimo assistendo ad un accesso dialogo nella testa di uno schizofrenico.

E tuttavia Mercer è sempre e solo sé stesso: un autore con un acuto senso della melodia, un interprete compostamente sguaiato della stessa. Con metodo più o meno sperimentale Mercer sembra usare i musicisti come prismi attraverso cui osservare  come cambia il riflesso delle proprie canzoni.

Così, se nel precedente “Port of Morrow” Mercer aveva voluto concentrarsi sulla ricerca di un suono pop classico, da sempre vocazione non troppo velata degli Shins, con “Heartworms” Mercer tira invece una serie di palle curve sonore, lancia suoni e effetti sulla tela degli arrangiamenti per vedere cosa rimane appiccicato e che effetto fa. Resta invariata la ricerca di una immediatezza pop che buchi l’ascolto a dispetto di una confezione elaborata, a volte quasi cervellotica.

Con l’iniziale “Name for You” si viene subito travolti da certi suonacci eighties, chitarre ritmiche effettate e campanaccio, a dispetto di un brano di inequivocabile marca Shins e sicura presa melodica. Un piglio glam piuttosto muscolare contraddistingue “Painting a Hole”, mentre a più riprese si sente elettronica vintage che rimanda all’era dei sintetizzatori DX-7 (“Cherry Hearts”, “Fantasy Island”).

Mercer rimane però fedele a sé stesso, al proprio stile di scrittura che combina ritornelli infettivi a rimuginii autobiografici: viene esplicitato il gioco di parole racchiuso nel titolo della raccolta, con melodie che si infilano nelle orecchie (earworms) per raccontare i dolori e gli smarrimenti dell’età adulta, che si fanno strada come bachi nell’anima (heartworms). Brani come “Mildlenhall” e “Dead alive” suonano vicini all’esordio “Oh! Inverted World”: in particolare la prima sembra figlia diretta della “New Slang” che fece la fortuna degli Shins a inizio carriera. Qui anche il dialogo diventa soliloquio autobiografico, con Mercer che ricorda gli anni da adolescente al seguito del padre militare in una piovosa città britannica. Sempre parlando di rimandi al passato, “Rubber Ballz” con i suoi coretti beffardi è felicemente imparentata con gli svagati gioielli di “Chutes Too Narrow”.

Le fila del discorso sono tirate dal dittico finale “So Now What” e “The Fear”: la prima è uno slow tempo che sa di anti-inno sull smarrimento adulto della generazione X, la seconda adagia su un arrangiamento mariachi un malinconico senso di perdita.

Di album in album, Mercer sembra cambiare continuamente la somma degli addendi cercando di distillare spontaneità pop in provetta: una spontaneità studiata ad arte, un ossimoro degno di un control freak. E’ alla ricerca di una pietra filosofale pop che tenga insieme gli Smiths e i Beach Boys, i Big Star e il synth pop, cercando di far suonare il tutto mantenendo una vena collegiale, ironica e scanzonata, a dispetto della confezione evidentemente elaborata, a volte iperprodotta, e dei temi che si fanno via via più cupi. Forse James potrà avvicinarsi per mosse successive a questo sacro calice, o forse lo aveva già raggiunto sull’insuperato “Chutes Too Narrow”. “Heartworms” comunque funziona a dovere, i “bachi” bucano le orecchie e qualcuno si avvicina anche al cuore.


 

65/100

(Stefano Folegati)