Timber Timbre, Huxleys, Berlino, 11 aprile 2017

Il nuovo disco “Sincerely, Future Pollution” l’ho trangugiato in fretta e furia grazie a qualche anteprima in streaming, per curiosità ma anche per non farmi trovare impreparato di fronte al palcoscenico. Un disco dai toni freddi rispetto ai precedenti e melodie sintetiche che elevano il discorso a un piano più metafisico. Un’evoluzione che disorienta in principio, ma che indubbiamente funziona, poiché il timbro vocale caldo e sornione di Taylor Kirk fa come sempre reparto da solo, controbilanciando il clima.

L’Huxleys Neue Welt è un teatro poco intimo, che si fa apprezzare non tanto per l’ampiezza, quanto per un impianto sonoro adeguato a un’esperienza d’ascolto importante. Perché quella che viene prodotta tra i fumi del palco, dalla prima all’ultima nota, ha lo spessore, la complessa semplicità e l’intensità costante di un contributo musicale di un certo rilievo. Il primo blocco ruota attorno ai nuovi brani, tra cui il delicato singolo “Velvet Gloves & Spit”. Un piccolo universo in progressiva espansione. Visioni ipnotiche evocate da una sezione ritmica ossessionante, sempre alla ricerca di una profondità sensoriale primitiva ed esacerbata da tensioni sintetiche che conducono lo spettatore a esplorare il limite tra l’angoscia e il piacere. Una scatola emotiva senza fondo, piena di ombre e lati oscuri che nascondono a loro volta un godimento travolgente, dopaminico, catartico. I Timber Timbre dal vivo colpiscono sia per la potente unità sinfonica con cui rivisitano i brani, sia per una narrazione che trascende la loro singolarità e innesca un viaggio lisergico circolare, in cui anche il silenzio si fa gravido di significati sublimi. Ogni singola unità sonora ha vita propria ed evolve seguendo parabole distorte disegnate attraverso un uso massiccio e magistrale del delay, per poi sfociare in un’equazione sinfonica in perfetto equilibrio. Un intreccio architettonico compulsivo, votato a un’intensità dalla quale non si può e non si vuole sfuggire.

Taylor Kirk, defilato sulla destra, dirige senza mai estraniarsi da questa dimensione cosmica. Una figura teatrale legnosa, poeticamente nevrotica e totalmente assorta nel suo mondo parallelo. Enfatizza il peso di ogni singola strofa, rivolgendosi non al pubblico ma a personaggi immaginari, terminali di una dialettica colloquiale quanto suadente. Il viaggio prosegue a ritroso verso gli inferi e, tra scenari apocalittici, tocca diverse tappe del consacratorio “Hot Dreams”. L’atmosfera si tinge di calore e sulle narcotiche note di “Beat The Drum Slowely” si sciolgono anche le pareti. Da lì a poco tutto sfuma, quando ormai i tessuti nervosi sono totalmente assuefatti e ne vogliono ancora. Due bis e tre canzoni per sgocciolare lentamente al di fuori di quella nebulosa onirica. Me ne vado estasiato come da tempo immemore non accadeva, con il fondoschiena dolente per il sovraccarico di acidi adrenalinici e l’anima quieta.

(Michele Scaccaglia)

Photo: Timber Timbre/Facebook