LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA, “Terra” (La Tempesta, 2017)

Qualche giorno fa è uscito il nuovo album de Le Luci della Centrale Elettrica. Il giorno della release è uscito un pezzo su Noisey in cui c’era un tizio che scriveva che ascoltare Vasco Brondi a trent’anni è deludente. Di solito questo tipo di dichiarazioni, soprattutto se personali, non mi interessano, ma questa volta è proprio da quell’articolo che vorrei partire per parlare di questo nuovo lavoro del cantautore ferrarese.

La domanda da porci è: ora che le nostre turpe tardoadolescenziali che Brondi sapeva raccontare così bene sono solo un ricordo, ora che a pensare alle nostre vite da post-diciottenni ci scappa da ridere, ora che i tempi di “Canzoni da spiaggia deturpata” e “Per ora noi la chiameremo felicità” sono andati e non ritorneranno, abbiamo ancora bisogno di qualcuno che ci canti della roba pensata soprattutto per consolarci? Ora che siamo trentenni, anagraficamente o no, abbiamo ancora bisogno di quel tipo di canzoni?
Secondo me la risposta è “no”. Non abbiamo bisogno di quel tipo di canzoni. Siamo diventati grandi, abbiamo un posto nel mondo, un orizzonte più definito di fronte ai nostri occhi, progetti di vita, idee, qualcosa da fare durante il giorno. Ostinarsi a ricordare com’era pura, disillusa, disorganizzata quella fase della nostra giovinezza non può che ritardare il momento della realizzazione del fatto che siamo diventati adulti, o semplicemente cambiati.

In questo senso, avevo accolto con piacere quella specie di svolta pop di “Costellazioni”, album pieno di pezzi riusciti, a cui a suo tempo assegnai erroneamente un giudizio troppo pavido. Con quell’album Brondi si era liberato di molta della zavorra che poteva condannarlo ad essere l’ennesimo bravissimo tizio che canta canzoni deprimenti con la chitarra: aveva osato, e parecchio, con un album prodotto, con molto, molto più suono e solidità. Nuovi orizzonti, nuovi modi di provare a raccontarsi. Grande successo di pubblico che, ovviamente, i vecchi fan a storcere il naso. “Non è più lo stesso”, dicevano. “E ci mancherebbe anche che fosse rimasto la stessa persona”, pensavo io. Ora, a quasi dieci anni dall’esordio, arriva questo “Terra”, che mi ha incuriosito fin da subito: se “Costellazioni” era il punto di partenza verso nuovi mondi, adesso voglio capire dov’è che Brondi è poi approdato.

È approdato in Africa. Almeno a giudicare dal primo brano estratto, “Stelle Marine”. Atmosfere sahariane, riff tuareg presi dai Tinariwen e ritornello ipnotico. L’Africa come il luogo dell’inizio di un viaggio alla ricerca di pace. “In questa notte alcuni superano deserti / mostri marini i loro destini/ hanno i segni sui polsi dei sogni enormi e documenti falsi”: di chi parla questo brano, se non dei milioni di disperati che scappano da quei luoghi? Dei morti in mare, dei cadaveri lasciati a galleggiare fuori da Lampedusa? Di noi che stiamo a guardare? È cambiato Vasco Brondi: ha smesso di parlare di sé, di quanto è difficile avere ventanni in provincia, e l’ha fatto semplicemente perché il tempo l’ha cambiato, è diventato adulto, ed è con gli occhi di un adulto che guarda il mondo che gli sta intorno. E noi con quale faccia di bronzo possiamo dire che tutto ciò è sbagliato?

È approdato in India e in Bosnia. O così è quello che racconta lui stesso per presentare “Coprifuoco”: lo strumento indiano della tabla elettronica dà il tempo ad un racconto solo fino ad un certo punto autobiografico di un viaggio in una Mostar devastata dalla guerra.

È approdato “Nel Profondo Veneto”, proprio come dice il titolo della canzone, dove si misurano la disillusione, la sconfitta esistenziale, la fine dei progetti di vita e della libertà dell’essere giovani e spensierati. Arriva un momento in cui uno si rende conto che è ora di finirla di scherzare: questa canzone canta proprio di quel momento lì, in cui si dice basta all’inseguire illusioni, bugie, errori.

E infine è tornato a casa, in Italia, in Europa, nella parte occidentale del mondo. “Iperconnessi” parla di quello che sta succedendo in questi anni: Internet, la violenza, la rabbia. Pensate alla situazione politica e sociale qui in Italia, pensate a Grillo, ai fascismi digitali, pensate a Trump, a Le Pen, pensate alla destra xenofoba in Germania, e poi state ad ascoltare il finale del brano: “Cantami o diva l’ironia della rete / Imprevedibile come le onde / cantami della fame di attenzione della sete / di ogni idea che si diffonde / cantami o diva dello sciame digitale / l’ironia sta diventando una piaga sociale / cantami dell’immagine ideale / da qualche parte c’è ancora sporchissimo il reale / cantami della proprietà privata interiore / del rumore di fondo della società dell’opinione”.

Chi è dunque Vasco Brondi nel 2017? È una persona che si guarda intorno, che vive il nostro tempo, che prova a scrivere di com’è il mondo nel tempo presente. È adulto, e da persona adulta pensa e scrive. Non parla più di brufoli, erasmus, amori finiti male, sofferenze da sfogare in cameretta. Non scrive più per consolarci.
Volete fargliene una colpa? Contenti voi.

70/100

(Enrico Stradi)