KELLY LEE OWENS, “Kelly Lee Owens” (Smalltown Supersound, 2017)

«What about coming into the dance world? What about standing in Berghain and feeling completely connected?»: in una recente intervista a Loud & Quiet Magazine, la giovane promessa dell’elettronica inglese Kelly Lee Owens riusciva a condensare molte delle cose che si possono dire o scrivere riguardo il suo sound e il suo album d’esordio. Qui sotto trovate la versione estesa.

Il disco, omonimo, esce questa settimana ed è un lavoro parecchio ispirato, che porta con sé influenze culturali – non solo musicali – che la producer originaria del Galles ha incontrato e conosciuto nel corso delle sue esperienze di vita. L’infanzia passata ad ascoltare i dischi di Kate Bush del padre, e poi la scoperta delle metropoli, che le danno la possibilità di alimentare nuove passioni: la scena underground dei club di Manchester, ma soprattutto le pulsanti contemporaneità elettroniche di casa al Fabric di Londra, distante pochi isolati dal negozio di dischi in cui ha trovato lavoro e che diventa presto una fertile fonte di scoperta e contaminazione culturale, prima che musicale. Tra queste, Arthur Russel diventa una figura fondamentale, alla stregua di una guida – non è un caso che una delle tracce di questo esordio discografico, tra le più interessanti, si intitoli proprio “Arthur”. Un ribollire di synth e percussioni morbide e ovattate si stende in sottofondo, e la voce dai torni eterei crea atmosfere rarefatte, meditative: un momento che si comprende soltanto se si associa tanto alla contemplazione spirituale buddhista, la religione di Russel, quanto alle serate passate dalla Owens al Berghain di Berlino, in cui la musica elettronica diventa lo strumento di connessione di corpi e anime.

L’elettronica come strumento di scoperta e racconto quindi, un po’ come Jenny Hval è riuscita a proporre in maniera formidabile nel suo ultimo “Blood Bitch”: il riferimento non è casuale, visto che la sperimentatrice norvegese è la protagonista di un meraviglioso featuring in “Anxi”, dove l’inconfondibile tonalità vocale di Hval assume atmosfere più ballabili, lasciando però intatto tutto il suo fascino ipnotico.

Ma oltre a riferimenti, citazioni e collaborazioni eccellenti, questo album sta in piedi da solo? Certamente. E bastano poche tracce – “Lucid”, “Evolution” e “CBM”, poste nel cuore del disco – per convincersene. In questi brani la Owens tira fuori tutta la sua maestria compositiva, tutta la sua stoffa da producer: beat caldi, arrotondati, ma vigorosi e pulsanti a fare da metronomo, e ritmi che si fanno sempre più serrati. È in questi passaggi che si sente chiaramente l’influenza del Fabric e di Daniel Avery, che lì è di casa e che ha collaborato con la Owens alla lavorazione del suo primo EP uscito un anno fa, “Oleic”. Dance music dai contorni trance, produzioni avvolgenti e contemplative, irresistibili inserimenti di synth melodici: è forse qui che il disco vive uno dei momenti più ispirati. Il finale poi regala altre sorprese: le dilatazioni del suono in “Keep Walking” ed “8”, con i ritmi rallentati e gli inserti vocali eterei che esplorano nuovi territori, più vicini al trip hop, ai Massive Attack di “Mezzanine”.

“Kelly Lee Owens” è insomma il primo sussulto di un’artista che sembra aver molto da dire, non solo in futuro ma anche ora, adesso, oggi.

80/100

(Enrico Stradi)