The Pop Group : i “ladri del fuoco” ritornano in Italia per tre concerti

Per tre date – il 7 febbraio allo Spazio 211 di Torino, l’8 febbraio al Bronson di Ravenna e il 9 febbraio al Magnolia di Milano – ritorna in Italia il Pop Group: che ad oggi è Mark Stewart (voce), Gareth Sager (chitarra, sax), Bruce Smith (batteria, percussioni) e Dan Catsis (basso). La band post-punk – nel senso letterale del termine, si parte dal punk (inteso come concetto del “darsi una possibilità”) e si va oltre – di Bristol, ritornata sulla cresta dell’onda nel 2010 con un tour e l’uscita nel 2014 della ristampa di “We are time” e di una raccolta nuova di zecca “Cabinet of Curiosities” (compilation di tracce live ed estratti dalla Peel session dell’agosto 1978), nel giro di un biennio, 2015-2016, ha già pubblicato due nuovi album: “Citizen Zombie” e “Honeymoon on mars”, dischi imperfetti ma con un suono in divenire, non fermo al 1980, anno della fine del gruppo per divergenze caratteriali (e musicali) e del suo ultimo concerto, il 26 ottobre 1980 al Trafalgar Square durante la protesta per il CND (Campaign for Nuclear Disarmament), ossia la campagna per il disarmo nucleare (tra gli organizzatori lo stesso Mark Stewart). La reunion, tra le migliori dei gruppi anni ottanta, non è la solita trafila disco nuovo-tour-trentennale dell’album storico per battere cassa: il motivo è semplice, il discorso sonoro/musicale del Pop Group non si è mai fermato (veramente), da sempre frammentario, caotico e magmatico è solo esploso in tanti pezzi : il punk-funk, il free jazz hanno trovato spazio nei Rip Rig + Panic e nei Pigbag; il dub (reggae), l’influenza/dialogo con l’elettronica contemporanea, l’impegno e fervore militante, la cultura hip hop sono andati sviluppandosi nei lavori a nome Mark Stewart. Questa nuova fase del Pop Group non riparte, quindi, da “For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?” (pubblicato nel 1980, secondo ed ultimo album della band, almeno fino al 2015) ma si lascia trasportare dal “qui ed adesso” : “Citizen Zombie” (ma nemmeno “Honeymoon on mars”) non è “Y” pt.2 – “Y” è il primo album, la “pietra dello scandalo” e miliare uscita nel 1979 – ma qualcosa di completamente diverso (anche se fa strano dirlo) perché la mente del Pop Group – fin dal 1977 Mark Stewart – è immersa nei suoni urbani che lo circondano, mai immobile su se stessa : nel 1975, prima del punk – come racconta in Totally Wired:Postpunk Interviews and Overviews (libro di Simon Reynolds)- frequentava con i suoi compagni i club heavy funk, indossando abiti anni cinquanta – “zoot suit”, creepers, pullover di mohair, sandali di plastica – e ballava su brani di Ultrafunk, T-Connection, Bt Express, The Fatback Band vivendo non lontano da St Pauls, area dalla forte comunità black e i sound system reggae, locali come il Bamboo club – che ha ospitato gli esordi dei Revolutionaries, primo gruppo di Sly & Robbie – rappresentavano la quotidianità; adesso, invece, in diverse interviste recenti, tra cui quella ad Aquarium Drunkard (novembre 2016), dice di essere “eccitato dalla musica che viene fuori dalla scena grime e trap […], impressionato da roba come The Bug, Goth-Trad, Dalek, Hans” ed apprezza anche il crunk, il footwork. In “Citizen Zombie” e “Honeymoon on mars”, quindi, trova terreno fertile – diventando il nucleo centrale di (quasi) tutti i brani – una vena dance disturbante, cacofonica che passa dal dub, all’industrial e sperimenta nuove vie dissonanti, già tracciate (a volte) da Stewart nei suoi dischi da solista, totalmente assente, invece – e qui la vera differenza con il passato (il periodo 1978-1980) – la tribalità primordiale e forsennata creata dalla commistione disarmonica di ritmiche funk-punk e divagazioni free jazz. Resta intatto, però, lo spirito combattente, anticonformista, DYI.

Il Pop Group in tre canzoni:

Thief of fire (“Y”, 1979)

“I admit my crime
I’m a thief of fire”

Così recita la prima strofa di Thief of fire: “ammetto il mio crimine, sono il ladro del fuoco”. Due versi ispirati al mito di Prometeo (ossia colui che ha rubato il fuoco agli Dei per darlo agli uomini), che potrebbero essere il manifesto programmatico del Pop Group: la conoscenza aperta a tutti, liberamente fruibile, da poter condividere senza barriere. L’origine del brano è spiegata da Mark Stewart in Totally Wired:Postpunk Interviews and Overviews: “‘Thief of fire’, quella canzone è l’idea di afferrare qualcosa di davvero lontano. Venire a sapere di cose che pensavi di non essere destinato a scoprire o che non ti era permesso scoprire. È il mito di Prometeo, ma l’ho distorto per far sì che vertesse sul tema di andare in aree sconosciute. Ricordo persone dire roba come, “Essere vivi non è abbastanza; voglio vivere”. Così era contro tutte le costrizioni”. Ovviamente anche la musica deve essere un campo libero, interessante a riguardo una dichiarazione di Bruce Smith in un’intervista al Sounds nel marzo 1979, “Il fatto è che il copyright separa le persone. Significa che se c’è qualcosa che apprezzi, che ti piace e vuoi diventarne parte in qualche modo, non puoi, sei fermato dal farlo. Tiene separate le persone, dal poter stare insieme in qualche modo. È una di quelle cose che tiene separate le persone”.

We are all prostitutes (45 giri omonimo, 1979)

“Everyone has their price
And you too will learn to live the lie”

“We are all prostitutes”, singolo uscito nel novembre 1979, segna uno spartiacque nella discografia del Pop Group. La produzione del brano è sempre ad opera del fido Dennis Bovell (personalità importante nella scena reggae inglese, fondatore del gruppo roots Matumbi, mente musicale del poeta Linton Kwesi Johnson, ex chitarrista negli Stonehenge), già in cabina di regia per “Y”. A cambiare, però, è la coscienza critica della band, che diventa sempre più consapevole dei propri mezzi, sempre più belligerante, dopo l’elezione a primo ministro di Margaret Thatcher . Decidere di non pubblicare più dischi con la sussidiaria della WEA Records, la Radar Records (la Kinney Corporation, conglomerata che incorpora la WEA, è immischiata nel traffico d’armi), è quindi un passaggio naturale, e lo è, ancor di più, dare una forma nuova ai propri testi: si passa dall’astrattismo esistenzialista ed idealistico di “Y” alla furia caustica, alla critica e propaganda politica di “We are prostitutes”, e poi di “For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?” (1980). Tutta la follia primitiva e sarcastica è racchiusa in tre minuti, registrati dal vivo e poi sovraincisi in studio: un pandemonio, tra riff funk, orbite impazzite di sax, organo e violoncello (suonato da Tristan Honsinger) . Un vero e e proprio “muro di rumore”, così lo definisce Mark Stewart in un’articolo di Uncut del marzo 2016: “Invece del “wall of sound” philspectoriano, il nostro era un muro del rumore. Volevo che la voce lottasse contro il muro del rumore, per rendere la cosa più reale come a voler davvero lottare all’interno della struttura della canzone.”

Justice (“For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?”, 1980)

“I wake up every day
And look at my country
This is what the blind man sees
Does it look like justice to you
It doesn’t look like justice to me
They’ve got to protect their property
Better phone up the police
Call up corruption
Who killed Blair Peach?”

“Justice”, brano contenuto in “For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?” (1980), è l’impegno fatto canzone: il punk-funk si fa trama sonora della narrazione urlata e disperata delle ingiustizie commesse dalla giustizia/polizia. Una su tutte, l’uccisione di Blair Peach, insegnante di origine neozelandese, durante una manifestazione dell’Anti-Nazi League nell’aprile 1979.


(Monica Mazzoli)