R.E.M., “Out of Time” (Warner Bros., 1991)

remoutoftimecoverScrivere di un album che ha venduto diciotto milioni di copie non è affatto semplice e la questione si complica quando i rapporti tenuti nei cinque lustri della sua esistenza sono stati perlomeno conflittuali: ‘Out of Time’ l’ho comprato entusiasta appena uscito e rivenduto all’alba degli anni zero convinto di poterne fare a meno, per poi sconfessarmi clamorosamente e tornarne in possesso nel 2011. Un ritorno di fiamma, non una minestra riscaldata: non è stata solo l’onda emozionale seguita allo scioglimento del gruppo, mi mancavano il suo respiro internazionale e la sua leggerezza, apparente quanto basta per non giudicarlo mai frivolo. Mi mancavano soprattutto quelle canzoni che nel ‘91 vestivano elegantemente casual, primeggiando nella categoria: lo scettro delle passerelle ‘alternative’ toccava a flanella e quadrettoni.

Togliamoci subito il dente ‘Losing my Religion’, di diritto nel novero delle ‘perfectpopsongs’ di sempre. Come spesso accade in questi casi il rischio è che nel tempo ‘venga a noia’, non fosse altro per quel prurito che provoca l’immediata individuazione da parte del popolo bue. Il mandolino poi qui da noi è sempre andato per la maggiore. Detto questo, “ti viene voglia di cantarla quando la senti e continui a cantarla quando è finita”. Parole di Stipe, inconfutabili ora come allora. Stesso effetto lo provoca il secondo singolo del lotto, ‘Shiny Happy People’: nomen omen, uno dei pezzi più solari che abbia mai udito. E’ solo il testo sempliciotto che non me la fa preferire all’illustre predecessora: il ritornello a tre voci (Stipe/Mills e la deliziosa Kate Pierson dei B-52’s) è francamente irresistibile. Menzione speciale per gli eccellenti archi arrangiati da Mike Bingham, qui come in buona parte del disco.

Chiusa la questione, riparto da capo. La bizzarra ‘Radio song’ apre le danze sostenuta da un Peter Buck cristallino. Possiede groove black, organo paraculo e un inaspettato ospite, il rapper KRS-1, così efficace da fare una figura da Grandmaster Flash agli esordi. Quarto singolo, fece la gioia di coloro presi a male parole (“ho acceso la radio ma non riesco a sentirla, il DJ fa schifo, mi rende triste”). ‘Low’ è scura e introspettiva, ha un intro che pare provenga più da Seattle che non Athens ma, a differenza degli anthems grunge, rimane sulle sue posizioni senza esplodere perché non ne ha bisogno. Pezzo fuori dal coro, in repertorio live da tempo, trovò la quadra-studio in quell’occasione: per mood sarebbe stata d’incanto sul successivo ‘Automatic for the People’, uscito un anno più tardi e vertice creativo dei Georgiani. ‘Near Wild Heaven’, cantata da Mills, è un felice mix di Beach Boys e Byrds, sufficiente a farle recitare l’importante ruolo di terzo estratto a sette pollici. ‘Endgame’ è uno strumentale con qualche vocalizzo: ha il suo fascino ma alla lunga annoia, le avrei regalato un testo. Al contrario a ‘Belong’ avrei donato un cantato: parlato e liriche sono interessanti ma ‘probabilmente lei meritava di più’ (cit.). Mills sugli scudi, basso distinto e piano giusto ove richiesto. ‘Half a World Away’ è l’episodio più debole del programma ed è un peccato perché il testo è di prim’ordine: è una band che sta riprendendo fiato prima del rush finale, obiettivo ‘successo’. Il programma offre ancora tre canzoni e le prime due sono radicalmente stars&stripes: ‘Texarkana’, memorabile in ‘Mai dire Gol’ dell’epoca, presenta nuovamente Mills al microfono principale ma è soprattutto Buck-quintessenza, ti viene voglia di abbracciarla tanto è ariosa. ‘Country Feedback’ è la parente western di ‘Low’ e vale quanto scritto a proposito. La chiusura di ‘Me in Honey’ è il perfetto sunto del disco, con seconda comparsata della Pierson a supporto di uno Stipe sublime nell’essere così credibile quando si chiede cosa sarà di lui. Ora lo sai Michael ma, ti prego, torna presto a farti queste domande: per quanto minuscolo possa essere vale comunque il mio esempio, avevo perso la fede e l’ho ritrovata.

86/100

(Alberto Neri)