R.E.M., “Automatic For The People” (Warner Bros, 1992)

automaticSia ben chiaro, per chi scrive “Automatic For The People” non è un’opera dei R.E.M., ma un luogo indefinito, nello spazio e nel tempo, nel quale pescare ricordi in formalina e suggestioni preziose e personali e, possibilmente, riviverle. Una sorta di antro segreto in cui riposano cose, immagini di persone, idee, sbarellamenti e angosce.

Nel lontano 1992 proprio “Automatic” ebbe il compito di afferrare un numero incredibile di 20enni in disarmo e raccontare loro cosa stesse succedendo nel loro mondo interiore e nella loro vita, offrendo loro le parole della loro inadeguatezza. Tutti quanti aspettavamo una sorta di “Out Of Time” part II, con la sua potenza e la sua leggerezza, ed invece i R.E.M. regalarono un lavoro infiltrato, dalla prima all’ultima nota, da una malinconia ed una dolcezza assolute.

Forse anche a causa degli stupendi arrangiamenti orchestrali (quegli archi!) di John Paul Jones, il lavoro scivola invariabilmente in una sorta di ritiro pensoso e ammalato, in cui i testi – tra i più belli scritti da Michael Stipe – assumono un piglio assolutamente esistenzialista.

In “Drive” Stipe sussurra soltanto un tema politico (l’invito è a non essere presi in trappola da Bush-padre), per poi dirigersi nei territori a lui affini dell’allegoria nascosta o della mera assonanza di parole, senza traccia visibile di un filo rosso che leghi il testo.

Chi vi legge una critica al governo americano, chi un ritratto impietoso dei giovani dell’epoca, disorientati, assurdi e inconsistenti. Ma la musica va oltre.

Quel che rimane infatti è lo straziato incrocio ipnotico di chitarra acustica e archi che segue lo svolgimento dell’intero motivo, lasciando dietro di sé una sensazione di totale abbandono esausto, ben interpretato dal video che lo accompagna, uno stupendo bianco e nero che vira sul seppiato in cui Michael si lascia trasportare da un muro di braccia umane, mentre una pioggia battente spazza l’intera scena ed il gruppo.

E’ “Try Not To Breathe” che apre lo scrigno nero di questo disco, regalando una lirica indimenticabile ed immagini degne del miglior Robert Frost o di Walt Whitman, ed affrontando con parole taglienti ed alate, senza ipocrisie, il tema della morte.

Un uomo, malato – possiamo immaginarlo sul letto di un ospedale – affronta esausto gli ultimi momenti di una vita che intuiamo non più degna di essere vissuta. Davanti, una persona amata, che l’uomo, ormai deciso ad andarsene, tenta dolcemente di consolare.

 

Proverò a non respirare
Posso tenermi la testa ferma tra le  ginocchia  con le mani
Questi sono gli occhi della vecchiaia, del brivido e del soffocamento
Proverò a non respirare
Questa decisione è mia ho vissuto una vita piena
E questi sono gli occhi che voglio tu ricordi
…”

 

Commovente il punto in cui il protagonista dice di “aver bisogno di qualcosa per volare al di sopra della propria tomba” e quell’insistenza sull’immagine del respiro, quello straziante affanno che coglie i morenti nella loro, ormai anelata, fine.

“The Sidewinder Sleeps Tonight” interrompe bruscamente la cupa (ma mai gratuitamente cupa) atmosfera di “Try Not To Breath”, immergendoci in un mondo infantile di una vecchia filastrocca (“The lion sleeps tonight”, il leone s’è addormentato… ricordate?), diritta derivazione di una nenia africana. Il testo, assai surreale e leggero, parla di un tizio che non ha alcuna intenzione di rispondere al telefono (“sidewinder” è il filo del telefono) e se ne sta tranquillamente appeso ai suoi pensieri quotidiani rimuginando tra sé e sé:

 

Baby, le minestre istantanee non mi prendono./Oggi ho bisogno di qualcosa di più sostanzioso.
Una latta di fagioli con l’occhio, un po’ di
Nescafé con ghiaccio,
un dolce, una stella cadente, o una storia del Dottor Seuss
(scrittore americano di libri per bambini n.d.r.)…”

 

Il giocoso svolgersi di questo pezzo scioglie improvvisamente in un sorriso il tema della morte prima accarezzato, ed alleggerisce la tensione dell’opera, un attimo prima di introdurci a quello che, negli anni, è diventato un vero inno: “Everybody Hurts”.

Accompagnata da un video che, da solo, è una storia a sé stante ambientata su di una affollatissima highway americana dall’aspetto stranamente felliniano (ricorda l’ingorgo dell’inizio di “8 e mezzo”), “Everybody Hurts” è un sublime, universale, compassionevole invito a non lasciarsi andare.

Il testo, chiaro come mai nessuna lirica prima, è una sorta di preghiera laica rivolta ai sofferenti che tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo cantato o sussurrato.

E’ con “Sweetness Follows”, dopo la strumentale “New Orleans n.1”, che “Automatic” raggiunge però una delle sue vette più dolorose e ispirate, trascinandoci nel campo del ricordo.

Il tema è la distanza, incolmabile, tra chi si ama: padri, figli, fratelli. In poche taglienti righe, Michael Stipe si chiede cosa ci possa dividere così profondamente dalle persone che ci circondano, e quanto sia amaro constatare questa lontananza, quando il tempo separa per sempre chi non ha saputo amarsi “bene”:

“Preparandoti a seppellire tuo padre e tua madre
Cos’hai pensato quando hai perso l’altro?
Mi sono sempre chiesto perché te ne preoccupavi.
Eravate distante da uno, cieco per l’altro

Ascoltate questo, fratello e sorella
Cosa ve ne importerebbe di perdere l’altro?
Mi sono sempre chiesto perché ve ne preoccupavate
Eravate distante da uno, e sordo per l’altro”

 

Siamo stati “distanti dagli uni e ciechi verso gli altri”, scrive Stipe, e quanta verità riluce nel riassumere, in due parole, la sensazione di un rimorso straziante.

Ma anche qui non si tratta di mesta rimuginazione; non c’è nelle liriche dei R.E.M. una tristezza che non sbocci in qualcos’altro, un dolore che non offra un’occasione di salvezza.

Il testo infatti segue con la frase: “Sweetness follows” (la dolcezza segue), bagnando di tenerezza il ricordo di questa distanza e di questo rimorso, e regalando, nelle sue ultime righe, alcune immaginifiche sensazioni, proprio per introdurla e spiegarla, questa tenerezza che scioglie e cura:

 

“Sono queste piccole cose che possono farti male
Vivi la tua vita riempiendola di gioia e tuono
Sì, sì, eravamo completamente
persi nelle nostre piccole vite

Oh, ma poi viene la dolcezza…”

 

“Monty Got A Raw Deal” (A Monty andò male), è dedicata a Montgomery Clift, attore americano degli anni ‘50 e ‘60, prematuramente scomparso dopo una vita di abusi, cliniche, depressioni e interpretazioni straordinarie.

In “Electrolite” (da “New Adventures In Hi-Fi”) Stipe citerà nuovamente il mondo di Hollywood, nella specie Steve McQueen, Charlie Sheen, Jimmy Dean, non avendo mai nascosto il suo amore per il cinema e per certi attori segnati da una vita difficile (anche a loro non andò benone…).

“Ignoreland”, riproposta nel tour 2008 in Italia in una versione veramente tirata e segnata dalla rabbia, è una clamorosa canzone di denuncia contro l’America (“terra d’ignoranti”) e contro la sua innata tendenza a farsi imbrogliare da politicanti senza scrupolo, corrotti, in un sistema d’informazione malato e infetto (e questo ricorda qualcosa…):

 

Yeah, yeah, yeah. Terra di ignoranti. Yeah, yeah, yeah. Terra di ignoranti. La nazione dell’informazione affonda le sue radici su tutti quei coglioni che hanno abboccato al richiamo: 1980, ’84, ’88, ’92, ancora, ancora…”

“La televisione racconta un mucchio di balle, i giornali sono terrorizzati dal riferire qualsiasi cosa che non gli venga messa in bocca dal presidente: sono profondamente frustrato da tutto ciò, ‘fanculo!’”

 

Subito dopo “Star Me Kitten” (scopami gattina), l’unico episodio inconsistente e superfluo dell’intero album, che non sembra servire ad altro che preparare il terreno per la forse più straordinaria sequenza della produzione del gruppo di Athens.

In successione troviamo infatti “Man On The Moon” , “Nightswimming” e “Find The River”, tre incredibili ballate legate assieme in un finale che toglie il respiro ed annichilisce ogni possibilità di distrazione.

Che “Man On The Moon” sia un’inno ad Andy Kaufman è dato arcinoto. Quanto questo comico scombinato potesse piacere ai R.E.M. è presto detto: lunatico, surreale, perennemente in lotta contro l’establishment e contro il mondo, Kaufman ha sempre rappresentato al meglio quello sguardo spietato e ironico sulla vita e sugli “Stati” che ha sempre contraddistinto la “poetica” dei R.E.M. Esagerato, irascibile, eppur straziato (si veda il bellissimo film di Milos Forman), questo attore-comico-wrestler ha da sempre tentato con le sue gag, alcun volte totalmente stravolte dal non-sense, di svelare l’impostura in cui siamo immersi, seguendo un percorso ondivago, a tratti a passo di gambero e, in certo senso, suicida.

In questo testo la figura di Kaufman permette a Stipe di sbugiardare “il mondo”, quello che appare da quello che sembra, scegliendo come pretesto la polemica arcinota del great big hoax relativo allo sbarco sulla luna ed infilando nel testo alcuni spunti memorabili, enumerando altre arcinote imposture intellettuali:

 

“Se hai creduto che abbiamo portato un uomo sulla Luna, un uomo sulla Luna…
Se credi che non ti nascondono niente allora non ci siamo proprio…

Mosè ha camminato con la verga… (yeah yeah yeah…)
Newton è stato colpito dalla mela propizia… (yeah yeah yeah …)
L’Egitto è stato afflitto dagli orribili serpenti… (yeah yeah yeah …)
Il signor Charles Darwin ha avuto la faccia tosta di farsi delle domande… (yeah yeah yeah…)”

 

Particolarmente suggestivo il piccolo inciso in cui Stipe scrive: “Ecco un ostello per camionisti invece di San Pietro… (yeah, yeah, yeah..)”. In primo luogo per il birbante accostamento tra camionisti e S. Pietro, che trovo davvero esilarante. Ed in secondo luogo per la scelta effettuata dal regista del video di “Man On The Moon” che ha proprio deciso di ambientare la scena in uno sperduto locale frequentato da truckdrivers agghindati da cowboy, ivi compresi i membri del gruppo.
“Nightswimming” non è semplicemente una canzone, è un “mondo”.

Un brivido corre dietro la schiena dalle prime note di pianoforte. Credo che questa sia la “canzone perfetta”, così mia come di tutti coloro che abbiano sentito abbastanza vita per ascoltarla e capirla. Non ho mai sentito niente di così preciso che rendesse l’idea della nostalgia, del tempo e delle persone che passano.

Di notte un’auto attraversa una città deserta, c’è un uomo, alla guida. Improvvisamente le luci dei lampioni svelano una foto sul cruscotto; è sicuramente la foto di una persona e quest’attimo in cui lo sguardo la cattura riporta il protagonista indietro nel tempo, in quella sera in cui si abbandonò ad un bagno notturno con lei. Il flusso dei ricordi esplode e Stipe ce n’è dà un’immagine indimenticabile ( che lascio in inglese, perché qualsiasi traduzione italiana è inopportuna):

 

“Nightswimming, remembering that night.
September’s coming soon.
I’m pining for the moon.
And what if there were two
Side by side in orbit
Around the fairest sun?
That bright, tight forever drum
could not describe nightswimming.

You, I thought I knew you.
You I cannot judge.
You, I thought you knew me,
this one laughing quietly underneath my breath.
Nightswimming.”

 

C’è il rimpianto ed il rimorso in questo ricordo esploso in una sera estiva quasi per caso: il rimorso di non essersi fatti conoscere, il timore di non avere conosciuto qualcuno veramente. Così com’è vera l’immagine di due persone che si abbandonano ad una nuotata notturna, ridendo e facendo di quel momento un momento perfetto.

A chi non è mai capitata una cosa simile? A chi non è capitato di sciogliersi alle ultime note di oboe che chiudono la canzone?

Dopo le rimembranze di “Nightswimming”, è “Find The River” che ci accompagna alla chiusura sopraffatti dalle emozioni.

Il brano è dedicato al poeta di Athens John Seawright, come suggeriscono sia il testo (“Gli occhi privilegiati e stanchi Di un poeta del fiume che cerca l’innocenza”) sia il video che ritrae un uomo anziano in cammino lungo un fiume, assieme al suo cane.

Per chi scrive, questo brano è anche una sorta di autobiografia esistenziale, fatta di ispirate immagini poetiche (“i miei pensieri sono  fiori sparsi”), in cui s’intreccia il tema della vita e la sua rappresentazione allegorica, ovvero il fiume che scorre alla sua fine ed alla sua meta.

 

“ i miei pensieri sono fiori sparsi
Oceano in tempesta, luna di pimento
Devo andarmene per trovare la mia via
Guardo la strada e memorizzo
Questa vita che mi passa davanti agli occhi
Niente sta andando come vorrei

..L’oceano è la meta del fiume
Il bisogno di andarsene, l’acqua sa
Che siamo più vicini ora di anni luce fa…”

“Automatic” si conclude, suggestivamente, con questa bellissima immagine del fiume che corre alla sua meta, come se le sue acque coprissero infine tutto quanto è stato, placidamente, nel bene e nel male (che è enorme).

Quel che rimane è la forza è la bellezza di esserci stati, in questo mondo, “persi nelle nostre piccole vite” (“Sweetness follows”), nell’urgente bisogno del momento.

Walt Whitman ha saputo dire tutto questo in poche righe, quando scriveva: “Siamo apparsi, con certezza, e questo basta”.

Al di là di questo non si sa davvero cosa sia la vita.

100/100

(Matteo Marconi)