Gang of Four, Spazio 211, Torino, 2 aprile 2016

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“Siete una cazzo di cover band… ma bene così…”. Al quinto o sesto pezzo lo sento urlare dalle retrovie. Io in prima fila, in solitudine, a muovere la testa in modo circolare con scatti repentini per seguire con la mente il loro vorticoso funk-punk. Davanti a me Andy Gill, unico superstite della formazione originale, sguardo falsamente duro e glaciale, con quella chitarra che produce un suono da bisturi di un chirurgo psicopatico.
Mi giro alla ricerca dell’opinion leader che ha espresso il suo disappunto (parziale e poco convinto) e mi chiedo: “il punk è ancora un’attitudine verso l’autenticità ed essenzialità delle emozioni o è diventato una posa elitaria?”. Perché il concerto fino a quel momento (ed anche dopo) stava letteralmente elettrizzando. Pezzi nuovi trascurabili su disco (l’ultimo album è “What happens next” del 2015) che dal vivo diventano esplosioni ad impatto devastante grazie ad una sezione ritmica potentissima (i due ragazzi al basso e alla batteria sanno suonare e, fatemi dire un’eresia, forse con maggior dinamismo rispetto ai dischi incisi con la formazione originale; l’evoluzione voluta da Andy Gill sta proprio nell’aver esasperato l’aspetto ritmico, già molto sviluppato all’origine). Il giovane cantante sa interpretare il ruolo, senza particolare originalità ma in modo sincero e onesto, dimenandosi tra i tre microfoni piazzati sul piccolo palco dove gli altri membri della band saltano e cambiano posizione di continuo, come la musica che suonano: nervosa, urgente, schizzata, ultraritmica.

“Siete una cazzo di cover band… ma bene così…”. “Ma bene così..” eccome!! Bene così perché il concerto senza dover dimostrare nulla del valore dell’intuizione seminale dei Gang of Four (il crossover non esisterebbe senza la Banda dei Quattro, così come i Minutemen, i Fugazi, i Red Hot Chili Peppers, i primi Liars, e i REM da “Document” in avanti ma persino gli Shellac ed i Jesus Lizard) ha prodotto le giuste e forse inattese vibrazioni.
Non sono mancati i classici dei primi due gloriosi album: il loro “manifesto” Damaged Goods, Great Men, Paralysed, Why Theory?, Anthrax. Su quest’ultima ho avuto i miei miseri trenta secondi di celebrità quando Andy Gill mi ha passato la sua chitarra carica di feedback dopo averla bistratta sul palco per produrre distorsioni sulle quali una matematica sezione ritmica scandiva un ossessivo drum & bass. Mi sono adeguato educatamente al filone rumorista e ho dato il mio sincero contributo! Unica data italiana, “bene così” per chi c’era (e lo spazio 211 era effettivamente gremito).

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(Alberto De Sanctis)