Sufjan Stevens, Teatro della Luna, Milano, 21 settembre 2015

Sufjan Stevens torna in Italia a quattri anni dallo scintillante tour di The Age Of Adz che chi ha avuto la fortuna di vedere, ha ancora scolpito nel cuore tra i concerti della vita (vedi report del live al Teatro Comunale di Ferrara). Ha un che di surreale aspettarlo nell’anonimo grigiume del parcheggio del Teatro della Luna alle spalle del Forum di Assago.
Nel frattempo l’introverso genio di Detroit ha compiuto quarant’anni, ha pubblicato un ulteriore imponente box di canzone di Natale, oltre ad assistere da vicino all’agonia e la morte della madre, dopo una lunga malattia. Questo lutto ha segnato profondamente l’immaginario di Sufjan che ha cambiato completamente rotta rispetto allo sfarzoso capolavoro di pop barocco elettronico “The Age Of Adz”. Come è lecito aspettarsi nel live di presentazione del nuovo capolavoro “Carrie and Lowell” le atmosfere saranno molto diverse. Dolore, lutto, morte e sconforto sono i temi ricorrenti. Alla fine del live, durato quasi due ore, se ne scuserà quasi imbarazzato, come fosse nudo e impotente, dopo aver sbattuto in faccia a duemila confidenti una lunga confessione fatta di stati d’animo molto intimi, tra turbamenti, ricordi felici e ricordi amari, fragilità interiori, spiritualità sobria e drammi. Dopo il live della songwriter e polistrumentista canadese Basia Bulat, passa qualche minuto che sembra interminabile e alle 21.30 in punto a luci basse, la band guadagna il palco. Sufjan è già su con loro, nessuna entrata in scena, nessun saluto, nessun cenno. Il preludio “Redford (For Yia-Yia & Pappou)” ci riporta a “Michigan” ed è subito un tuffo al cuore. Poi in ordine sparso i primi dieci brani dal nuovo disco, senza pause, saluti, intermezzi. Una liturgia sussurrata da Elliott Smith cristiano che annichilisce da quando prende su il fido guitalin in “Death With Dignity” fino alla rielaborazione à la The Age Of Adz di “All of Me Wants All Of You”.

La voce è avvolgente, trafigge il cuore, come se il tempo si fosse fermato e il silenzio della platea aiuta. I video proiettati alle spalle dei cinque con quelli che un tempo si chiamano filmini dell’infanzia non possono lasciare indifferenti. La band che lo accompagna è formata da polistrumentisti mostruosi, tutti più o meno intercambiabili ovviamente (se vi ricordate un tempo c’era St. Vincent in formazione) con la voce della cantautrice del Kentucky Dawn Landes che si sposa molto bene con quella di Sufjan, sempre flebile, eterea e distante nei nuovi brani. Un lunghissimo brivido lungo la schiena da “Should Have Known Better” a “No Shade in The Shadow of the Cross” e “Fourth of July”, tra momenti di folk retrò asciutto e pastorale ai passaggi in cui i synth si liberano nell’aria in maniera composta e soffusa. Non ci riesce a muovere né a parlare. Sufjan sembra sinceramente coinvolto, in alcuni passaggi sembra soffrire immerso in una preghiera, come in cerca di una consolazione interiore. Una leggera sferzata arriva sul finale con “The Owl and the Tanager” dal potentissimo EP “All Delighted People” e lo sfogo di “Vesuvius” dal precedente album. Una tregua che consola e rincuora con “Blue Bucket of Gold” e un finale tempestoso a chiudere il set. E idealmente la sua terapia live.

Bis, cambio d’abito, berretto giallo, camicia da teenager e ritrovata loquacità e qualche sorriso. Con ironia, “scusate se è stato triste” e una carrellata più ariosa e di (ormai) antichi classici da “Illinois” come “Concerning the UFO Sighting Near Highland, Illinois” e “Casimir Pulaski Day”. Nel mezzo, ineluttabimente un po’ di amarezza con “For The Widows In Paradise, For The Fatherless In Ypsilanti” da “Michigan” e “The Dress Looks Nice on You”, stranamente unico regalo da “Seven Swans”,. Riprendersi sarà sempre più dura. Si torna sulla terra con il sorprendente finale di “Chicago”. Sorprendente perché non arrivano festoni, palloncini e chorus esplosivi, ma una versione acustica, soffusa, quasi a cappella con l’aggiunta in formazione di Basia Bulat. Il classico da “Illinois” sale sul punto di esplodere ma resta sul filo. Non fa niente. Il live potrebbe continuare per altre due ore con i pezzi preferiti di ciascuno dei membri della band, un medley di canzoni natalizie e qualsiasi altra cosa, perché la sostanza non cambierebbe. Sufjan Stevens è un monumento della nostra generazione.
A differenza sua, per molti di noi le chiese sono solo delle costruzioni più o meno suggestive. In Italia ce ne sono a decine di migliaia: la prossima volta trovategliene una o costruitegli un tempio. Sarebbe il minimo.

Scaletta:

Redford (For Yia-Yia & Pappou)
Death With Dignity
Should Have Known Better
Drawn to the Blood
Eugene
John My Beloved
The Only Thing
Fourth of July
No Shade in the Shadow of the Cross
Carrie & Lowell
All of Me Wants All of You
The Owl and the Tanager
Vesuvius
Blue Bucket of Gold

Concerning the UFO Sighting Near Highland, Illinois
For the Widows in Paradise, For the Fatherless in Ypsilanti
The Dress Looks Nice on You
Casimir Pulaski Day
Chicago