SUFJAN STEVENS, “Carrie & Lowell” (Asthmatic Kitty, 2015)

sufjan_stevens_carrie_lowell-bUn disco di Sufjan Stevens è di per sé sempre una bella notizia. Tra i pochi autori contemporanei vecchio stile, autentici, originali ed estranei a logiche e consuetudini discografiche ci si potrebbe aspettare da un momento all’altro il ritiro dalle scene. E l’uscita di questo “Carrie & Lowell”, a cinque anni di distanza da un capolavoro un po’ sottovalutato come “The Age Of Adz” (recensione), invece, smentisce ogni timore. Dopo un tour sfarzoso e pirotecnico che resterà a lungo colpito nella storia della musica e nella memoria di chi ha avuto la fortuna di prendervi parte da spettatore, Sufjan si è ritirato a vita più o meno privata in quel di Brooklyn.

Il trentanovenne di Detroit, dopo qualche comparsata sul palco con The National, ha rilasciato un 7″ con Rosie Thomas nel 2012 in occasione del Record Store Days e dato vita a “Planetarium”, eccentrico progetto sui pianeti del sistema solare insieme a illustri concittadini e colleghi quali Bryce Dessner e Nico Mulhy. Sempre nel 2012 è arrivato il secondo super.panettone natalizio con 58 canzoni natalizie da lui reinterpretate e presentato dal vivo in 24 città, “The Sirfjam Stephanapolous Christmas Sing-A-Long Seasonal Affective Disorder Spectacular Music Pageant Variety Show Disaster”. Niente di strano per il prolifico cantautore polistrumentista che ha sempre reagito ai suoi malesseri con intenti alquanto ambiziosi, per non dire megalomani. Si pensi a quando, un decennio, aveva manifestato il proposito di realizzare un disco per ogni Stato degli USA, poi presto abbandonato dopo gli eccellenti “Michigan” e “Illinois” che l’hanno reso popolare.

La morte della madre Carrie, per un cancro allo stomaco fulminante, rappresenta la chiave della sua ultima tormentata svolta artistica. Il tragico avvenimento lo riavvicina alla madre che, affetta da schizofrenia bipolare, ha abbandonato Sufjan quando non aveva nemmeno compiuto due anni e con cui non ha mai avuto un buon rapporto, almeno fino agli ultimi mesi prima della morte.
Il piccolo Sufjan si ricongiunse alla madre, in realtà, qualche anno dopo grazie al matrimonio con Lowell Brams (attuale manager della sua etichetta Asthmatic Kitty) e il ricordo ormai remoto di tre estati più o meno serene trascorse da piccolo in Oregon con madre e patrigno, segna buona parte delle composizioni di questo “Carrie & Lowell”. Per portare a termine il disco, Sufjan si è allontanato da New York per andare a registrare in Oregon, sulle tracce dei luoghi d’infanzia.
Così come musicalmente, invece, si è allontanato, piuttosto bruscamente dalle ambiziose sperimentazioni elettroniche di “The Age Of Adz” e da quello spirito baroque che ha sempre caratterizzato il suo cantautorato.
In questo settimo LP, Sufjan esplora territori più affini all’opening track del precedente LP (“Futile Devices”) e ai momenti più scarni e minimalisti di “Seven Swans”, con una spiritualità nuovamente affollata di riferimenti cristiani, ma ancorati a una dimensione molto terrena e umana, nella sua smaccata spiritualità.
Il suo timbro inconfondibile alterna molti più sospiri che falsetti, le tracce sembrano tutte costruite su arpeggi e folk immediati, ma non mancano mai, sullo sfondo, eleganti incursioni, tra piani, organi, armonizzazioni vocali e inserti orchestrali. Sempre sullo sfondo, senza quei crescendo e quei cambi che disorientavano e lasciavano senza fiato. Sufjan, comunque, riesce ancora a togliere il fiato, a emozionare e a creare un’empatia disarmante con l’anima di chi ascolta, grazie alla sua voce e alle sue parole, fin dai primissimi secondi del disco. Restare freddi e impassibili a brani come “Death With Dignity”, “Should Have Known Better”, “All Of Me Wants All Of You”, “No Shade In The Shadow Of The Cross” è disumano.

Nelle undici composizioni che si alternano in “appena” 44 minuti di musica – che per un disco di Sufjan Stevens suona quasi come un EP – non si può che pensare a un Elliott Smith post-evangelico, soprattutto l’Elliott Smith acustico dei primi album. Fa eccezione l’introspezione biblica di “John The Beloved” e curiosamente l’eterea “Fourth Of July” (il giorno della più nota festività americana aveva ispirato anche il compianto songwriter di Omaha nella splendida “Independence Day”, inclusa in “XO”).
Nelle sue liriche parla espressamente di morte, sesso, amore, malattia, disturbi psichici e suicidio, ma la ricerca di Dio, è ormai parte integrante di un gusto artisticamente estetico e di un’iconografia contaminata di visioni e immagini quotidiane e sempre squisitamente umane. Quando, come già in passato, non emergono temi e visioni legate alla mitologia pre-cristiana. Sufjan è un personaggio demodé e assolutamente estraneo a ogni schema e la sua spiritualità smaccatamente cristiana non disturba in alcun modo.

A prescindere dal proprio credo e dalle proprie convinzioni religiose, nell’ascolto di questo capolavoro, non si resta incantati da parabole fatte di redenzioni e catarsi. Si resta emotivamente coinvolti da una storia fatta di drammi e rinascite di donne e uomini, scritta da un uomo fragile, sincero e incredibilmente talentuoso che si conferma, ancora una volta, uno dei migliori songwriter viventi.

90/100

(Piero Merola)