MATTHEW E. WHITE, “Fresh Blood” (Domino, 2015)

Matthew-E-White-Fresh-BloodForse non se lo aspettava lo stesso Matthew E. White che il suo primo disco “Big Inner” ricevesse così tanti consensi. E invece no, quel debut album rimane ancora meritatamente impresso nella memoria e nelle orecchie di chi l’ha ascoltato, e ascoltato ripetutamente.
E quindi, anche se due anni e mezzo fa sarebbe stato impensabile, ecco che l’uscita del secondo disco crea una certa dose di attesa.

Ci ha pensato anche il primo estratto “Rock And Is Cold” a farci ben sperare: un r’n’b coloratissimo e leggero dava proprio l’impressione che il ragazzone americano fosse riuscito a ripetersi dopo i singoli che resero grande il primo disco, come “Big Love” o “Will You Love Me”. E anche “Take Care My Baby”, piazzato all’inizio del disco con la sua vena pop rosa e zuccherata, sembrava anticiparci un ritorno in grande stile.

E invece “Fresh Blood”, alla fine, non convince del tutto. Ma guai a pensare che ci sia qualcosa di storto a livello musicale: è un prodotto confezionato alla perfezione, con mestiere e gusto finissimo. Il soul e l’r’n’b di stampo smaccatamente seventies riescono ancora a fondersi con quel pop “colto”, come era successo col primo disco. I suoni rotondi e dorati sono ancora lì, con la loro morbidezza zuccherata, come cuscini su cui si appoggiano le liriche affettuose del capellone della Virginia. E questo succede, se si vuole citare un pezzo sopra gli altri, soprattutto in “Feeling Good Is Good Enough”, che parte adagio col solo piano e poi sul finale si apre di sfumature e coretti ripetuti di na na na na decorativi.

Più che sulla musica, l’appunto che si fa a Matthew E. White è sulle intenzioni: vero è che molte volte un disco di conferma è proprio per questo un buon disco, ma sinceramente ci si aspettava un po’ di più. La capacità compositiva, il coraggio revivalistico e l’estro nell’attualizzazione di suoni del passato dimostrati all’esordio avevano alzato la sua asticella personale di artista, e forse per Matthew E. White era il momento giusto di fare davvero il salto in alto, quello della consacrazione.

Qualcosa, insomma, non è riuscito del tutto. A fine del disco rimane l’impressione che non ci sia stato abbastanza coraggio, audacia, o slancio. Il senso di meraviglia e di sorpresa che ci aveva regalato “Big Inner” già al primo ascolto qui non si ripete, e dei dieci pezzi ne restano in mente solo un paio, forse tre. Al prossimo disco, speriamo osi di più.

68/100

Enrico Stradi