GRIZZLY BEAR, “Shields” (Warp, 2012)

Legittimamente tra i dischi più attesi dell’anno, “Shields” arriva dopo due capolavori. Cosa che rendeva quantomai improba l’impresa di ripetersi. “Yellow House” ha segnato la svolta con l’arrivo a tutti gli effetti di Rossen, “Veckatimest” è stato il loro “OK Computer”. Non solo per deviazioni vagamente sperimentali, quanto per la popolarità che ne è derivata. In Italia non gli si riesce a pagare il cachet perché in proporzione servirebbero numeri da Coldplay, è vero. Ma nel resto dell’Europa e soprattutto oltreoceano, i quattro polistrumentisti con sembianze e fattezze da anonimi ragazzi della porta accanto, sono diventati un fenomeno inaspettatamente di ampia scala. Sarà stato sufficiente il cruciale endorsement di Jonny Greenwood che li aveva definiti la migliore band del pianeta per poi convincere gli altri Radiohead a sceglierli come supporto nel 2008. Sarà stata la facile presa di un paio di brani di un album senza sbavature quali “Veckatimest” e la loro presenza da headliner in decine di festival internazionale. Fatto sta che i Grizzly Bear sono, al di là dei gusti, una delle band contemporanee più originali e affascinanti.

Si erano barricati nel nulla più totale, nel deserto del Chihuaha, a Marfa, centro fantasma texano da duemila abitanti che ha ospitato i set di vecchi (“Il gigante”) e recenti classici del cinema americano (“Il Petroliere”, “Non è un paese per vecchi”). Una metaforica via di fuga dalle folle per partorire le prime due perle tra i nuovi inediti, “Sleeping Ute” e “Yet Again”. Chris Taylor, bassista, arrangiatore e ancora una volta produttore, aveva intanto dato vita al progetto CANT, non del tutto convincente. E Daniel Rossen aveva risposto con esiti migliori qualche mese più tardi, pubblicando in un EP solista a suo nome cinque outtake (che avrebbero fatto le fortune di chiunque) delle sessioni di “Shields”. Sessioni spostatesi intanto dalla parte opposta degli USA nella casa della nonna di Ed, come già per “Yellow House”. Destinazione Cape Cod, penisola orientale del Massachusetts proiettata sempre verso il nulla, ma in un orizzonte smaccatamente oceanico. Texas o New England, cambia poco. La vena e il gusto dei Grizzly Bear in chiave loner sono intatti. I due estratti avevano fatto gridare, giustamente, al disco dell’anno preventivo. Progressioni armoniche struggenti, le schitarrate arabeggianti di Rossen e le voci di Droste, Rossen e Taylor che si sovrappongono con maestria Sixties. Break lancinanti, stridori, lampi orchestrali. Il minimalismo non è mai stato nelle loro corde. La produzione di Taylor arricchisce al solito di infinite sfaccettature undici affreschi fortunatamente mai ridondanti. L’intermezzo strumentale, l’unico, di “Adelma” non avrebbe un perché ma ha il merito di aprire a meraviglia a “Yet Again” (brano dell’anno?) e “The Hunt”. Straziante litania tipicamente Grizzly Bear, con quei toni disillusi da Radiohead della Frontiera (vedi anche “Gun-Shy”).

Mai così ricchi di parole, nei nuovi brani del quartetto di Brooklyn si respira quella magniloquenza dei Mercury Rev e ancora l’inevitabile eredità di Beach Boys e “Skylarking” con un’anima sempre calda, umana, e low-profile. Uno spirito folk instillato dai peculiari arpeggi di Rossen. Reso moderno da una leggera e aggraziata cura nella sintesi digitale. “Half Gate”, uno dei passaggi più vicini alle precedenti produzioni, e in parte “What’s Wrong” sono due esempi cristallini. I crescendo generano una struttura più o meno sinfonica che trasborda in aspettati momenti-opera à la Sufjan Stevens in “A Simple Answer”, il brano più immediatamente orecchiabile con una chiusura smorzata che annichilisce. I sette minuti, infine, di “Sun In Your Eyes”, tra Morricone e “Deserter’s Songs” sono uno di quegli epiloghi impetuosi e cinematografici che ci si aspetta da capolavori del genere. Sì, se non si fosse intuito, “Shields” è il capolavoro che si pretendeva dai Grizzly Bear. Di una bellezza sofferta tutt’altro che facile da accettare e recepire, ma pronta a schiudersi e a rivelarsi in tutto il suo folgore nella solitudine di una notte.

88/100

(Piero Merola)

2 Ottobre 2012

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