CAN, “The Lost Tapes” (Mute, 2012)

Se bisogna avere eroi, allora che siano artisti, e di quelli che creano opere come il bosone di Higgs, la particella di Dio che trascina a sé i neutroni e i protoni e, costringendoli a danzare attorno ad essa, li trasforma in materia, nella madre dalla quale la vita, noi, veniamo. E i Can con il loro “Tago Mago” (1971) furono artisti di questo livello.

Per questo quando eroi di tale portata riconducono alla luce trenta ore – trenta ore! – di musica sepolta e dimenticata nei meandri del castello di Inner Space dove erano state registrate meritano la nostra trepidante attenzione: live, pezzi inediti in attesa del lavoro giusto, improvvisazioni che Irmin Schmidt (tastiera) e il produttore Daniel Miller studiano, analizzano al vetrino, remixano e dispongono in ordine con l’aiuto di Jono Podmore. Ne vengono fuori tre ore pubblicabili di brani (dal 1968 al 1977). Ladies & gentlemen ecco a voi “The Lost Tapes”! Che poi solo il titolo evoca ere perdute, mondi sconosciuti da svelare, un colpaccio di 3 cd che rappresentano la consegna della mappa per l’arca perduta alla nuova stirpe di adepti.

Inutile stilare un elenco accurato brano per brano delle qualità insite e delle debolezze. Tentando si potrebbero segnalare brani come “Millionenspiel” da apertura cosmica: un pulsare regolare, tenuto dal magnifico Jaki Liebezeit (batteria) in odor di dub, sopra un velo etereo di vento elettrico, e la corsa drum’n’bass che si sviluppa in un’iterazione che per agglutinamento da fusion jazz accresce lo spessore della scrittura; brani come “Waiting For The Streetcar” dove la reiterazione del gesto ritmico è lasciata alla voce di Malcolm Mooney che in una nenia isterica prospetta lacci avviluppanti di orrore crescente; e ancora brani come “Graublau”, interminabile per le articolazioni ritmiche che si adocchiano dietro la forma, l’oceanica versione live di “Spoon”, la proto canzone dark “A Swan Is Born”, la quasi rumorista “The Loop” che insegna come riempire di sostanza i vuoti di una tracklist, l’avant jazz più sperimentale di “Midnight Men” o la tellurica “On The Way To Mother Sky”. No, non è possibile continuare l’elenco. I brani infiniti e i brani rumoristi, quelli brevi e impossibili e quelli dalla forma canzone classica si equivalgono per la libertà creativa che i Can seppero esprimere negli anni presi ad esame.

Di tutti la tramatura è identica: la ripetitività ritmica mai pigra ma precisa e sciamanica, calda e sensuale, tribale e vitale. Il ritmo si fa incandescente man mano che viene battuto, e dentro l’incandescenza ammiriamo le visioni di tante forme musicali a venire. “The Lost Tapes” non è un capolavoro ma è l’indice dei capitoli che scandiscono la strada per arrivare al capolavoro! Il vademecum dei Can che ci spiegano come affrontare una prova iniziatica, un miracolo alchemico, l’opera al nero che accresce l’adrenalina e la trance affinché si abbattano i tabù e ogni repressione culturale.

“The Lost Tapes” è dono commovente alla nuova generazione di eroi che raccolgono il testimone di questa impresa. Non è bene che si guardi al passato in cerca di una grandezza che forse non c’è mai stata, che non c’è mai nel presente: opere simili servono a svelare la grandezza che non è del passato ma di un presente sempre a venire.

70/100

(Stefania Italiano)

16 luglio 2012

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