DJANGO DJANGO, “Django Django” (Because, 2012)

Se Django, lo spaghetti-western interpretato da uno spietato Franco Nero, primeggiava e primeggia tuttora nel suo genere, lo stesso promette di fare l’elettrizzante album d’esordio di questo giovane quartetto scozzese di stanza a Londra. I Django Django moltiplicano per due il nome del film cult di Sergio Corbucci e si divertono a giocare con l’ascoltatore fin dal titolo dell’omonimo full leght d’esordio.
Scaltra è l’operazione del gruppo originario di Edimburgo, che dà alla luce un astuto corollario dall’ortografia disordinata e irregolare, che risulta però fin da subito incredibilmente immediato. Django Django è uno di quei dischi che ti fanno muovere la testa in cenno d’approvazione già dal primo ascolto, di quelli che si mettono nel lettore nel pre-serata, per sbalordire gli amici e fargli pronunciare con una punta d’invidia la fatidica frase: “E questi dove li hai scovati?”

Nel colorato calderone imbastito dai fantasiosi scozzesi sono individuabili le influenze più variegate, dall’electro-pop ammiccante dei Cut Copy (“Waveforms”) alla psichedelica tipicamente brit dei Super Furry Animals (la magnetica “Firewater” e la conclusiva “Silver Rays”), passando attraverso immancabili reminiscenze brianwilsoniane (“Life’s a Beach”) e caldi beat di marca Kraftwerk (“Default”).
Già, il beat. In questa entusiasmante opera prima il battito è sempre quello giusto, ascoltare per credere il gommoso groove di “Zumm Zumm” o l’irresistibile “Hail Bob” che, annunciata da una marziale introduzione psych-western, si candida per un posto d’onore nella classifica dei migliori brani dell’anno grazie al suo incalzante crescendo.

“Django Django” si nutre di fluorescenti suggestioni a tratti perfino controverse, mescolando con disinvoltura suoni da dancefloor casareccia e aperture quasi sci-fi (“Wor”), che confluiscono con audacia e naturalezza in un unicum innegabilmente omogeneo e godibilissimo.
Tutti i brani dell’album, nessuno escluso, si fanno apprezzare per vitalità melodica e fantasiosa inventiva, facendo perdonare le frequenti strizzate d’occhio ad un appeal quasi commerciale.
Quando poi l’esuberante quartetto scozzese si concede viaggi dreamy ai confini del folk (“Hand of Man”) o si azzarda a miscelare battiti tribali ad armonizzazioni vocali degne di Paul Simon (“Love’s’Dart”), beh è davvero difficile non lasciarsi scappare un gridolino di gioia.
In attesa di vedere cosa sono in grado di fare dal vivo, godiamoci dunque questo stravagante affresco, ideale per fare da colonna sonora ai primi party di questa calda primavera.

81/100

(Stefano Solaro)

30 marzo 2012

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