Primavera Sound 2011 vol. 1, Barcelona (26-29 maggio)

foto di Giulia Balducci

foto di Giulia Balducci

Dieci anni fa il Primavera Sound era poco più che un festival di nicchia. Altro che 140mila presenze. I paria del divertentismo catalano reclusi nell’intima cornice del Poble Espanyol allora erano circa settemila. Cifra che raddoppia l’anno dopo mentre il cast si arricchisce di nomi internazionali del calibro di Spiritualized, Tindersticks, Echo & The Bunnymen e soprattutto i Pulp. Era il 2002. Muoveva i suoi primi passi il club alternativo più cool di Barça che prendeva il nome proprio da una loro canzone, l’ormai celebre Razzmatazz. Era anche l’ultima presenza fuori da Albione della band di Jarvis Cocker prima dello scioglimento.

Otto anni dopo i Pulp scelgono il Primavera Sound per il grande ritorno. Perché ormai solo il Primavera sembra in grado di riportare sul palco le reunion insperate di un certo spessore e senso.
Il festival è diventato un fenomeno dalla portata mondiale. Senza mai svendere il prodotto con nomi di facile presa (si pensi alla triste parabola discendente di Reading, Roskilde, Pukkelpop), il Parc del Forum ha accolto ogni anno il meglio degli artisti contemporanei comodamente (e grossolanamente) definibili indipendenti. Senza risparmiarsi il meglio dei nomi dimenticati dell’underground del passato.

Anche per il Primavera Sound 2011 si cerca di avvicinare il pubblico ai gusti del festival evitando il pericoloso procedimento opposto. Una lezione da manuale per ogni ambito culturale. Il cast conta ormai quasi duecento nomi. Sempre più difficile, anno dopo anno, riuscire a vedere tutto. Soprattutto dopo la scelta di aggiungere un secondo palco principale, lo Llevant Stage, a quasi un km di distanza dall’entrata, spesso irraggiungibile, dalla collocazione non acusticamente perfetta per quanto suggestiva. Resta al suo posto l’ATP Stage, secondo per qualità solo al Pitchfork Stage, sempre insuperabile per la portata attuale degli artisti selezionati e spinto giù nel molo più prossimo al mare. San Miguel e l’arena Ray Ban sempre al centro del parco, l’Adidas Pro e lo Jagermeister-Vice si dividono il piccolo molo dell’area stampa.

Il report arricchisce l’esperimento 2.0 dei live tweet con cui abbiamo raccontato in 140 caratteri impressioni flash sull’evento musicale dell’anno (link a dirette recuperabili qui: 26 maggio, 27 maggio, 28 maggio).
Il Primavera resta sempre e comunque un festival molto nerd da seguire con una tabella di palchi e orari sempre davanti agli occhi e con la buona disposizione a improbabili fughe tra i palchi per vedere quanta più roba possibile. Regola fondamentale: vedere il minor numero possibile di concerti interi per i live che superano l’ora. Per il sottoscritto vuol dire: Pulp, The Flaming Lips, Sufjan Stevens, Fleet Foxes, oltre che i set da ballare fino all’alba ovviamente.
Se volete solo divertirvi insomma, non è il festival che fa per voi.

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giovedì 26 maggio

in ordine di gradimento…

THE FLAMING LIPS (San Miguel)

Due di notte e passa. Lanciate nella mischia una dozzina di improbabili fortunate vestite da dorothygale imbottite di mdma e messe a ballare a bordo palco. Qualche altro travestimento improbabile chiude il quadro a tema Mago di Oz. Per non parlare di Wayne e il suo pellicciotto da profeta della strada dei mattoni gialli. Il rito della bolla trasparente catapultata verso la folla tra coriandoli, stelle filanti e palloncini con Wayne intrappolato. Lì dentro come in se stesso. Chitarre perverse. Synth visionari. Ritmiche primordiali e incessanti. E il rito è servito. Tra fragori e tenui estasi con ripescaggi che definire d’annata è poco (“Yoshimi Battles the Pink Robots, Pt. 1”, “She Don’t Use Jelly”). Le astrali mini-suite dell’ultimo Embryonic, “The Worm Mountain” e “See The Leaves”, sfidano il cielo. Come a dire che opporsi al dato di fatto è qualcosa di vano: i Flaming Lips vanno visti almeno una volta nella vita. Altrimenti si spaccia per un live quella che è solo un’inutile routine. In “Pompeii Am Götterdämmerung” il Parc del Forum si trasfigura in uno shuttle. Un floydiano viaggio verso il nulla di ritorno dal ventiduesimo secolo. Il bis con “Race For The Prize” e “Do You Realize” fa deflagrare la città d smeraldo. Immortali. O forse mai nati?

THE WALKMEN(Pitchfork)

I Walkmen sono una di quelle band che un po’ come gli Spoon uniscono un’indiscutibile efficacia e semplicità negli arrangiamenti, songwriting e longeva qualità su disco. Sei dischi in nove anni senza mai cali di tensione. E il loro live è la perfetta fotografia di un equilibrio ormai solido per il quintetto newyorkese. Tra momenti chrooner (“On The Water, “Wake Up”, “All Hands And The Cook”) che per intensità non hanno niente da invidiare a Nick Cave che intanto fa furore sul palco principale coi suoi Grinderman. Ed esplosioni sixties imprendibili quali “Angela Surf City” e “Woe Is Me” dall’ottimo ultimo LP “Lisbon”. Merito unicamente dell’avvolgente voce di Hamilton Leithauser, impeccabilmente in abito panna? Non solo. A vedere il palco e la lunga scalinata gremita di una folla impazzita durante il loro classico “The Rat” sembrerebbe trattarsi di un fenomeno di massa. Provate a invitarli in Italia: richiamerebbero più di 200 paganti?

SUICIDE performing first lp (Ray Ban)

Saranno state le voci su un loro live alquanto ridicolo nell’ultima capatina in Italia a scatenare una reazione di sorpresa uguale e contraria allo sdegno per le recenti performance del duo più innovativo della Grande Mela degli anni ’70. Ma in formazione ampliata a tre membri, l’imprevedibile volto EBM per Alan Vega e Martin Rev lascia ko l’arena del Ray Ban. Basi martellanti che annichiliscono. Feedback d’ordinanza. Inutile spendere parole sull’importanza del loro stravolgente disco d’esordio. Quello che colpisce è la loro rinascita live. Dopo anni di discutibili duo-performance da geriatria.

GRINDERMAN (San Miguel)

Non è ancora chiaro il motivo per cui Nick Cave abbia deciso di dare un altro nome al lato più cattivo e garage dei 3 Bad Seeds più fedeli. In fondo Warren Ellis e gli altri anche senza il bisogno di chiamarsi Grinderman hanno incendiato i palchi di tutto il mondo. Quello che fa la differenza è la mancanza delle ballad più dimesse di Re Inchiostro. Che in questa versione uomo tritatutto rimaterializza gli spettri maledetti della giovinezza nei Birthday Party. Devastanti.

CARIBOU (ATP)

Caribou è ormai a suo agio nel club mood, da LCD Soundsystem sotto acidi meno blandi, figlio del sorprendente Swim. Miglior live all’ATP stage della giornata. Casse dritte e bell si prolungano fino allo sfinimento. “Kaili” e “Sun” sono già due inni.

ONEOTHRIX POINT NEVER (ATP)

Le siderali schegge drone di Daniel Lopatin (già Games) potrebbero far durare la notte in eterno. Una giusta pausa di riflessione mentre il cielo imprevedibilmente si schiarisce. Si capisce perché gli Animal Collective si sono appassionati all’ineffabile compositore di Brooklyn.

ISLET (ATP)

C’è sempre un nome sconosciuto che riesce a stupire più degli altri. Nel primo giorno sono gli Islet. Misteriosa super-band underground che unisce membri di Attack and Defend, Them Squirrels, Fredrick Stanley Star, Sweet Baboo e The Victorian English Gentlemen’s Club. Il risultato è un omaggio dissacrante e contemporaneo alle atmosfere no-wave di fine anni ’70. Doppia batteria, disturbanti dissonanze da risposta gallese ai Liars.

CULTS (ATP)

Altro gradevole antipasto pomeridiano. Sì perché qui in Catalogna le 19 sono a tutti gli effetti primo pomeriggio. Il disco esce praticamente nei giorni del festival eppure grazie al web i due ragazzi interrotti di Manhattan sono già noti e stranoti per un paio di impeccabili singoli pre-LP, “Go Outside”, “You Know What I Mean” e “Abducted” sono il frutto più riuscito di quello che si preannuncia l’album indipendente dell’estate. Bassa fedeltà, Nancy Sinatra bene in mente, melodie sbarazzine e agrodolce leggerezza balneare. Un po’ di sole tra le nubi minacciose del tramonto.

OF MONTREAL (San Miguel)

Un bel po’ di ore prima dei Flaming Lips, ci pensa Kevin Barnes a metterla in caciara. Giullare contemporaneo con tanto di collant rossi, adeguatamente accompagnato da personaggi kitsch e dalla saltuaria apparizione di due wrestler con tanto di arbitro. “Gronlandic Edit”, “Plastis Wafer”, “A Sentence Of Sorts In Kongsvinger”. Uno show nello show. “Suffer For Fashion” è il pre-party ai Flaming Lips. Con un po’ di ottimismo e di buoni sentimenti in più, oltre alle stelle filanti e a continui crowdsurfing. Of Montreal, una carica da far arrossire di vergogna i Franz Ferdinand.

MOON DUO (Ray Ban)

Il torvo Erik “Ripley” Johnson alla chitarra è il quinto grinderman, l’allucinata Sanae Yamada di cui è impossibile distinguere il viso per il continuo dimenarsi è con la testa chissà dove. I due membri dei Wooden Shjips presentano “Mazes”, rock psichedelico di perfetta scuola Spacemen 3. Synth assassino che pare preso in prestito dai Suicide che si esibiranno qualche ora dopo sul palco. Riverberi e chitarra aggrovigliata su se stessa. La titletrack vale il disco e il live.

THE FRESH & ONLYS (Pitchfork)

Sempre San Francisco al centro della scena. Psichedelia come punto di riferimento, ma più orientata in un songwriting lungo le strade dell’ovest. Il garage pop dai guizzi western dell’ultimo album Fresh & Onlys accompagna verso il primo crepuscolo il palco delle vere novità. Finalmente le chitarre. E che chitarre. “Waterfall” uno dei brani più belli degli ultimi anni.

P.I.L. (Llevant)

Vero momento nostalgia, vista la sorprendente trasformazione dei Suicide. John J. Lydon è lo zio rassegnato di Johnny Rotten. Un tetro clown tragico post-punk con lo sguardo greve e i segni degli eccessi sul corpo. Tuttavia la sola visione di quel logo, essenziale, minimale e così rievocativo, è da pelle d’oca. Public Image Limited (altro che Sex Pistols!), una delle band più influenti dell’epoca. “Death Disco”, “Flowers Of Romance”, “Albatross”, l’ironia di “(This Is Not A) Love Song”, “Memories”, “Rise” sono vera liturgia degli Eighties.

DUCKTAILS (Jagermeister-Vice)

Un soddisfacente assaggio del pop a bassa fedeltà del progetto parallelo di Matt Mondanile, chitarrista dei Real Estate. La Woodsist ormai sta creando un suo suono, da cui non si discostano le oniriche e vaporose trame del collettivo del New Jersey.

SUUNS (Ray Ban)

Notte fonda, i Suuns – canadesi rigorosamente sotto Secretly Canadian – chiudono la programmazione dell’arena Ray Ban come a dimostrare che ormai anche i vicini degli States possono introdurre l’elettronica nel rock. La lezione di XTRMNTR e i claustofobici tunnel disco della scena newyorkese degli Anni Zero (The Rapture). Da risentire con una freschezza maggiore dell’ormai residua lucidità delle cinque del mattino.

EMERALDS (Pitchfork)
I suggestivi affreschi ultraterreni del gruppo di Cleveland aprono la programmazione Pitchfork e pagano il contesto ambientale. Tutti cercano un bar in cui sia funzionante il sistema 2.0 di pagamento tramite pass card. I volumi sono bassi e i loro sottofondi dalla Via Lattea perdono un po’ d’impatto nella viva luce pomeridiana.

CONNAN MOCKASIN (Jagermeister-Vice)
In principio erano i Connan and the Mockasin. Nome sfigato, ma efficace per lo stralunato cantautore neo-zelandese che nelle vesti live dona un potenziale più rock e fruibile ai suoi piccoli inni quotidiani. Fatboy Slim ne è appassionato. Un motivo ci sarà.

BEARSUIT (Adidas Pro)
Nel palco delle nuove proposte, in cui l’Italia sarà rappresentata da A Classic Education, trascurati per motivi d’opportunità (leggere PJ Harvey) nella serata conclusiva, qualcosina di buono passa mentre si ingeriscono in velocità le birre della Press Area. Mood easy da band pop svedese per la band di Norwich. Si faranno. Malgrado scrivano album ormai dal 2004.

TOUNDRA (Pitchfork)
Come da tradizione una band spagnola apre nel primo pomeriggio (spagnolo) alla line-up del Pitchfork. I Toundra propinano uno spietato post-rock di scuola Explosions In The Sky. Bravini, ma originalità pari a sottozero. Ci sarà un motivo se nel mondo anglosassone quasi tutti hanno smesso di produrre dischi del genere.

(Piero Merola)

11 giugno 2011

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