FIELD MUSIC, Measure (Memphis Industries, 2010)

Un campo di musica si distende attorno e di fronte a noi, pieno di doni musicali offerti generosamente dai fratelli Brewis, scesi a “misurare” con il loro nuovo doppio album, “Measure” appunto, la vasta storia del pop britannico. Un corposo trattato di 20 brani che con micidiale facilità collega trame musicali, rimandi e citazioni percorse più o meno abitualmente dagli artisti inglesi, per dirci che il senso del pop con la sua storia e le sue espressioni è stato fin qui troppe volte tradito, e merita dunque di essere recuperato.

“Measure” è in qualche modo un ritorno orgoglioso alle proprie glorie, dove dai Genesis agli XTC è un rincorrersi inesauribile di sussulti, di soprassalti delle cellule nervose della nostra memoria (che diavolo ci fanno i Manhattan Transfer in “The rest is noise”?), passando dalle esperienze canterburiane (e se in “It’s about time” ci trovassimo un po’ della Penguin Cafè Orchestra?) a quelle più accessibili degli Alan Parsons Project, misurando trasversalmente il Paul McCartney più architettonico (“Measure”, “Them that do nothing”, “Precious Plan”) e gli Yes più melodici, in una corsa a rotta di collo indietro nel tempo. E avanti nel futuro!

Non sfugge infatti l’intento programmatico di Peter e David che indicano la via da perseguire per un nuovo corso del pop: troppo maltrattato come prodotto di semplici canzonette il pop torna a vita maestosa grazie a innesti naturali di suoni e attitudini prog (“In the mirror” il brano di apertura è esemplare). Cosicchè ognuna delle venti canzoni, ogni intonazione, ogni scelta stilistica quando pare già sentita, risuona in modo del tutto nuovo, con un suono personale e compatto del quale non si riconoscere più la fonte.

Difficile parlare di una canzone piuttosto che di un’altra, data la cura amorevole e devota con cui le mani abili dei fratelli Brewis creano (in brani come “Curves of the needle” o .”The wheels are in place” la devozione sfiora l’opulenza). Un lavoro organico che rappresenta una grande dichiarazione d’amore ai propri maestri, che però resta incompiuto e toglie respiro alla sua pur evidente bellezza. C’è infatti un limite che sta proprio nella perfezione cesellata dei brani, perfetti nei loro suoni, nella ricercatezza della virgola melodica, della soluzione ritmica, dei richiami evocativi di stili e temi (meravigliosamente pop-psichedelica la mercuriale “You and I” o la omni-evocativa “Something familiar” che salta dai Pink Floyd agli Who) che acquistano in cerebralità ma perdono in immediatezza: difficile dopo pochi ascolti canticchiare per esempio “Light Up” o “Share the words”, nonostante l’incedere melodico degno della tradizione britannica.

Mettere molta carne al fuoco, impreziosire, creare costruzioni architettoniche complesse per affrancarsi dall’essere commerciale, e finire invece a sembrare freddo e mediato: il “peccato originale” del pop?

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