IL PAN DEL DIAVOLO, Sono all’osso (La Tempesta / Venus, 2010)

Piccoli fenomeni crescono in fretta, nell’era di internet. Ai giovani Pan del Diavolo tocca in sorte un percorso molto simile a quello che, solo qualche anno fa, procurò la ribalta a Le Luci della Centrale Elettrica. Un progetto di semplicità e insolita energia, messo a disposizione del popolo della rete, poi immortalato in un Ep che riscuote consensi dalle voci “giuste” e infine messo sotto contratto dalla stessa etichetta che investì tutto su Vasco Brondi (che ora del duo è già mentore eccellente).

In questa faccenda (dove belle promesse e solide certezze si avvicendano con una velocità che qui, tra le lungaggini della burocrazia reale, ce la possiamo solo sognare) la parte più curiosa consiste nel contenuto del pacchetto, ovvero nella formula musicale proposta dalla band siciliana. Che è un folk ‘n’roll casalingo, fatto solo di grancassa, chitarre e sonagli, quanto di più lontano si possa immaginare da una realtà futuribile che viaggia ai forsennati ritmi telematici.
Per esser veloci sono veloci, i Pan del Diavolo, ma prestano anche un’attenzione tutta particolare alle roots della musica (non solo) statunitense per poi mescolarne le carte, con un’urgenza e un’essenzialità che sorge spontaneo definire “punk”. In questo senso la frase che dà il titolo al disco non mente affatto: gli arrangiamenti che vestono le creazioni dei due sono veramente ridotti “all’osso”, anche se ad un ascolto appena più attento il range di stili passato in rassegna risulta ben più vario di quel che sembrerebbe. Ci sono cenni r’n’b, del rockabilly, c’è qualche prova di ballata folk, c’è il punk pestone e senza spina dei migliori Violent Femmes; qui e là si può gustare pure qualche sapore di tammuriata mentre manca, bontà loro, qualsiasi riferimento “pizzicato” alle varie tradizioni danzerecce meridionali (il che, con i tempi che corrono, rappresenta già di per sé un pregio).

Nei pochi episodi di “Sono all’osso” dove non è l’irruenza a farla da padrona, resta in realtà qualche angolo da smussare e, specie nei testi, quelle piccole macchinosità che chi se ne intende chiama “margini di miglioramento”. Ma è altrettanto vero che sono proprio gli spigoli e le imperfezioni a fare dei Pan del Diavolo una creatura sonora dannatamente “viva” e lungi dall’essere addomesticata con i trucchetti digitali da sala d’incisione. Prima che le cose cambino, quindi, sarà meglio assicurarsi di averli già incontrati. Magari in analogico.

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