JARVIS COCKER, Further Complications (Rough Trade, 2009)

Questione di punti di vista: immaginatevi la quantità di smadonnamenti, i fischi dal loggione e le accuse di tradimento che sarebbero toccati ad un gruppo di garage-rock intento a riciclarsi nel crooning pop. Se invece parti da popstar nella multiforme scena britannica, fai presto a prenderti una vacanza nel mondo delle chitarre: si alza la cornetta, si prenotano un paio di settimane in uno studio di registrazione di Chicago (inclusive di Steve Albini al mixer), si dà alle nuove composizioni titoli come “Fuckingsong” e si lascia che per un po’ di tempo la propria barba cresca beatamente incolta…ordinaria amministrazione.

Si potrebbe indugiare a lungo sulle ragioni del cambio di rotta dell’ex Pulp, giunto ormai alla sua seconda tappa da solista: ma si mancherebbe il punto, che per un esteta quale si conferma essere sir Cocker, non sta mai nel “perché” ma nel “come”. Come gli sta il suo nuovo abitino stilistico? Gli dona oppure no? E dopo i primi ascolti la risposta è…così così. Non c’è niente che non funzioni in “Further Complications”: piuttosto, è proprio il suo stesso firmatario ad apparire spesso indeciso sulle nuove vesti. In “Angela”, “Homewrecker” e nello strumentale “Pilchard” campa per aria molta energia, e verso il finale viene sorpreso addirittura ad infilare il piede in una terza scarpa: l’ultima “You’re in My eyes”, opportunamente sottointitolata “discosong”, lo vede infatti scivolare sui territori di uno stile senveties lascivo e discoprovolone à la Barry White. I numeri più gustosi, neanche a dirlo, sono proprio quelli che cockereggiano di più, tra il cantato confidenziale di “I Never Said I Was Deep” e la romantica “Leftlovers”. Due testi che rispolverano il consueto humour da gentleman, magari non così popolare dalle parti dei punkrocker di razza, ma sufficiente a renderlo riconoscibile ai suoi seguaci di vecchia data: è sempre il buon vecchio Jarvis, nonostante il chitarrone.

Mai detto di essere “profondo”, si discolpa lui: eppure arriva un punto in cui anche il più irriducibile tra i pop-camaleonti inglesi deve sollevare la pellaccia e riconoscere che lì sotto c’è uno stile naturale, una personalità, e che non sempre è facile dissimularla dietro una maschera. E la prova che ciò che resta di umano in una popstar ogni tanto riesce ad avere la meglio sui comandamenti imposti dallo stile: e questo indubbiamente è di consolazione, anche al cospetto di un disco riuscito solo a metà.

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