Luca era un rap

Ieri sera ero in macchina, in ritardo come al solito, eppure armeggiavo lo stesso con l’autoradio, sfrecciando nel traffico e mettendo a rischio l’incolumità di parecchie vite, non ultima la mia, nel tentativo di capire quanto facesse il Milan a Brema. Missione fallita: nei cinque minuti di tempo che ho impiegato per raggiungere la mia meta (senza morti né feriti), sono riuscito giusto ad ascoltare uno stralcio di telecronaca di Samp-Metalist e “Luca era gay” di Povia, dall’Ariston, dato che su Radiouno hanno deciso di accoppiare Coppa Uefa e Festival di Sanremo, con il dichiarato intento di generare l’Anticristo.

In attesa che il figlio del demonio si manifesti, torniamo su Povia. Confesso che nel sentire il suo pezzo sono rimasto anche io indignato come molti: ma mai possibile che nel 2009 si possano ancora scrivere (e si debbano ancora ascoltare) cazzate del genere?
Su contenuti della canzone, già ampiamente dibattuti altrove, vorrei spendere una sola, rapida considerazione: la tattica “è successo a un mio amico…” era già vecchia una ventina d’anni fa, e quindi scriviamo pure Luca=Povia sui muri di ogni città, come faceva Cocciante per Margherita.

Quello che mi ha profondamente ferito nel pezzo del cantautore è l’aspetto formale. Nel tam tam che ha preceduto il Festival, avevo sentito da più parti parlare della canzone di Povia come di un rap. Notare la presenza dell’articolo indeterminativo, a segnalare inconsciamente quello che addetti ai lavori e critici pensano del genere: eh sì, ho fatto un rap, si ritroverà a commentare Povia fra qualche anno, ma ero giovane, confuso, mia madre era assillante e gelosa della mia collezione di dischi, mio padre non riusciva a prendere decisioni e lasciava che fossero le stazioni radio a stabilire i suoi gusti, e con la maturità un video di Kanye West in pelliccia mi fece tremare il cuore, ma vi giuro che ora sono cambiato…

Il fatto è che, come (ogni) ascoltatore di hip hop, sono stufo di essere trattato come il cane dello schiavo. Al di là delle mie più nefaste aspettative, infatti, Povia prova a rappare veramente. Ne esce qualcosa di comico, inqualificabile dal punto di vista estetico, terribilmente ingenuo nella costruzione della narrazione, minus habens per metrica e rime. Perché, ogni tanto, capita che qualche cantanti si cimenti con “un” rap? Fra le tante risposte, quella che mi sembra più convincente è che lo facciano perché rappare è facile. Il che non è necessariamente una bugia: scrivere è facile, disegnare è facile, fare gaffe è facile. Non tutti però sono Proust, Picasso o Berlusconi. E Povia non è decisamente Method Man. Ma non è neppure uno dei Gemelli DiVersi: per quanto siano tamarri da fare schifo, per quanto il vocoder nel ritornello sia da bandire per legge, per quanto il tema della canzone sia facile e lo svolgimento piuttosto banale, il gruppo di Milano fa rap e ha le basi tecniche per farlo (lo ammetto, ero partito con l’idea di massacrare anche loro, ma la mediocrità a confronto dell’incompetenza assoluta assume tutto sommato un suo perché).

Ecco l’attacco di Povia: prima di raccontare/ il mio cambiamento sessuale/ volevo chiarire/ che anche se credo in Dio/ non mi riconosco nel pensiero dell’uomo/ che su quest’argomento è diviso.
Tralasciando la paraculaggine contenutistica, vero file rouge del pezzo, sorvolando sulla metrica già scazonte in partenza, concentriamoci invece sulle rime. Lo schema adottato in avvio da Povia è un bel A-A-A-B-C-D (o a essere più stronzi A-A-B-C-D-E): si parte cioè con un’assonanza baciata, si deraglia in un sessuale/chiarire che, generoso come sono, concedo volentieri al più amato da bimbi e piccioni. Ma dopo? Come si giustificano le chiusure Dio/uomo/diviso? Cosa collega, dal punto di vista fonetico, questi versi? Cosa li rende gradevoli? Il contenuto? Facciamoci il piacere, via.
Il pezzo comunque va avanti. Povia passa con leggiadria dal rap a una sorta di canticchiato che prepara l’ascoltatore all’esplosione del ritornello nazionalpopolare; al termine del quale, con mio sommo sgomento, Povia decide di ritornare al suo “un” rap: ma in quel momento cercavo risposte/ mi vergognavo e le cercavo di nascosto/ c’era chi mi diceva è naturale/ io studiavo Freud non la pensava uguale. Qua Povia si limita a un A-A-B-B che nella sua modestia potrebbe persino funzionare, non fosse che risposte/nascosto, purtroppo, non fa rima. Una piccola annotazione contenutistica: se Povia nella prima strofa asseriva con piglio da uomo della strada che (Luca, ovviamente) non si era rivolto a psicologi e psichiatri per capire la sua vera natura ma si era frugato nelle interiora, qua utilizza Freud per bacchettare i sostenitori della naturalezza dell’esperienza omosessuale. Ribadisco che non ho intenzione di toccare l’argomento del pezzo nemmeno con un palo lungo tre metri (cit.); ma è troppo comodo considerare la scienza solo quando fa comodo, una strofa no e quella dopo sì.

Non continuerò a sezionare il pezzo, perché fa male più a me che a voi. Solo una chicca finale: nel corso della trascinante ultima strofa, dopo che Povia ha narrato l’incontro (di Luca) con la ragazza che gli cambierà per sempre vita e prospettive, dopo aver chiarito che si tratta solo della sua (sempre di Luca) storia, nessuna malattia e nessuna guarigione, ci mancherebbe sor Grillini, in tempo di guerra ogni buco eccetera eccetera; appena dopo aver perdonato il padre debole, assente e alcoolista; nel mentre che rifila l’ultima stilettata alla dispotica madre, Povia ci regala l’ultima e più preziosa gemma della sua collezione: ma adesso sono padre e sono innamorato/ dell’unica donna che abbia mai amato.

Ma si può fare una rima del genere? Innamorato/amato ? Si può perdere tempo a polemizzare su un pezzo del genere? Si può considerare Povia un cantautore? In ogni caso, lo si può bastonare?
Probabilmente sì (intendo polemizzare su l pezzo; sul bastone nodoso che avrei impugnato volentieri invece l’Avv. Bardelli allarga le braccia e fa segno che non si può), fanno bene quelli che si scagliano contro Povia e la tesi di fondo del pezzo, che secondo me c’è, e lo dimostra forse più di ogni altra cosa lo sforzo dell’autore nel dissimularla (nessuna malattia e nessuna guarigione, e l’idea del cartello “nessuno ha sempre ragione” come vi sembra? Io non ho mai sentito nulla di meglio dai tempi di “specchio riflesso se ti muovi sei un cesso”).
Per quanto mi riguarda, chiedo solo una cosa: smollate il rap, per favore? Potete continuare a sbeffeggiarlo quanto vi pare, non è musica, dove sono gli strumenti, si vabè ma parlano, musica da negri, tu vvo fa’ l’ammerigano…
Ma sul “sono capace anch’io” fermatevi : non cercate di dimostrarmelo. Vi credo sulla parola.

(Fabio Varini)