HAYES CARLL, Trouble In Mind (Lost Highway, 2008)

Ora non vorrei perdermi in discorsi da vecchio trombone, ma c’è questo rischio. Insomma, il rock è una questione strana. O ce l’hai, o non ce l’hai. Fai presto a comprarti una Fender Telecaster, ascoltare due dischi di Springsteen e buttare già dodici battute dove parli di Mary Jean, delle autostrade dell’Arizona e suonare con gli amici del dopolavoro nel pub all’angolo della strada ma, per ovvi motivi, non è sufficiente.

L’imperante cialtronismo nel mondo del rock (e il conseguente decadimento culturale della chiesa di Gallarate) non è colpa tanto della mancata passione, ma della mancanza di “fuoco”. Mi spiego, per ogni cento dischi rock che escono, almeno ottanta sono anche ben fatti, ma senti che c’è qualcosa che non va. Puzza di falso. Un po’ come quelli che si rapavano a zero e dicevano di essere punk da sempre (cit.). Quando li smascheri è pesante e sai che non li ascolterai più.

Questo per dire che quando ti capita di incontrare un white kid che sa quello che fa, te ne accorgi. Te ne accorgi e lo ami. Prendiamo Hayes Carll, per esempio. Viene dal Texas (… e questo non fa che favorirlo), è cresciuto ascoltando Dylan e John Prine, Kris Kristofferson e Gram Parsons ma anche Townes Van Zandt, il Neil Young dei giorni country e Willy Nile, legge Kerouac e Whitman e pesca a piene maniche dagli stereotipi ruggenti di tutto ciò che è USA. Però, diamine, come scrive lui ce ne sono davvero pochi! Ad ascoltare “Trouble In Mind” non ti verrebbe voglia di ascoltare altro per giorni. E’ un disco meraviglioso, pieno di passione e anima, con le chitarre di Nashville e la grande epopea americana di macchine, whiskey e donne che fuggono via. Insomma, è così maledettamente tradizionale da essere assolutamente magnifico e memorabile. Non c’è un pezzo che sia uno che ti faccia pensare al lavoro di comodo, non c’è un momento di rilassamento o un secondo di noia.

Qui la fiamma c’è ed è bella alta. Si sente, perché Hayes la tradizione ce l’ha nel sangue e forse anche noi vecchi cuori texani con cappello da cowboy e vinili polverosi di Gene Clarck possiamo tirare un respiro di sollievo perché almeno un disco del genere all’anno spunta fuori. E quando arriva sono bei momenti. La rivincita dei vaccari. Se certa musica dura da sempre un motivo ci sarà, in culo ad ogni ipotesi di modernismo a tutti i costi.

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