LINDSTROM, Where You Go I Go Too (Smalltown Supersound, 2008)

Dalla Norvegia con furore. Hans-Peter Lindstrom sbuca fuori dai ghiacci qualche anno fa a colpi di 12” e di remix (fra cui quelli per Franz Ferdinand e Lcd Soundsystem), forte di una gavetta fatta di apprezzati e apprezzabili Ep, producendo sia in proprio sia insieme al sodale Prins Thomas (Thomas Hermansen) e sbancando infine con “I Feel Space”, programmatico successone che lo piazza di diritto fra i più illuminati interpreti di una scena space disco particolarmente in auge dalle parti di Oslo.

Giunto due anni dopo “It’s a Feedelity Affair” (che in realtà è una raccolta di vecchi singoli più o meno editati), il nuovo “Where You Go I Go Too” rappresenta in sostanza una sorta di debutto a pieno titolo sulla lunga distanza. Un concetto, questo, che il nordico H-P sembra voler abbracciare in senso letterale se è vero che ci propone una ben poco convenzionale sequenza di tre sole tracce a coprire i 55 minuti di durata del disco. Come a dire: poche chiacchiere e zero compromessi, la sostanza di un approccio schietto e diretto che, nella sua indiscutibile suggestività da prog concept, riesce a essere ambiziosamente svaccato. Sì perché non lavora propriamente di cesello, il nostro: cresciuto nella terra dei fiordi a suon di country music e rockaccio vario, Lindstrom si fa portavoce di un suono seducente ma allo stesso tempo audace e sfrontato, che non conosce vergogna alcuna nel rielaborare e attualizzare – in chiave a volte inevitabilmente kitsch – molta dance dei tempi che furono (senza per questo incappare nel facile quanto inutile scimmiottamento). Una sorta di allegra riesumazione del corpo disco 70’s in veste balearic attraverso fugaci scorrerie lungo le coste europee e nelle terre germaniche dei vecchi Corrieri Cosmici. Un po’ come facevano i suoi antenati vichinghi.

La suite lindstromiana è aperta dalla mastodontica traccia che dà il nome all’album, un lungo viaggio sonoro di 29 minuti (!) sicuro debitore degli insegnamenti di Gottsching ma con un occhio ai Tangerine Dream e l’altro ai sintetizzatori di Jean-Michelle Jarre, in un crescendo che ora qua ora là sa anche di minimalismo, di sci-fi soundtracks e di chissà cos’altro. Fino al momento in cui la depressione gravitazionale risucchia definitivamente quel che resta del riff dominante.

E’ evidente come il fervido immaginario dello scandinavo si nutra in egual misura di sottili richiami e di ammalianti atmosfere così come di eccessi formali e anacronistici bagordi, la pomposità sinfonica che trova l’appoggio del synth pop anni ’80, le scansioni house a trascendere in ipotesi di retro-futurismo spicciolo.

Gli altri due pezzi, quasi schiacciati dalla maestosità del brano d’apertura, si mantengono grosso modo sulle stesse coordinate spazio-temporali. “Grand Ideas” è un telaio Moroder su motore Kraftwerk, il beat che si fa incalzante sopra un’Autobahn che scorre via cosmica dentro gallerie appena più scure e trafficate. Il terzo brano (“The Long Way Home”) è l’ultima tappa del percorso, l’approdo naturale: la lunga strada porta finalmente verso casa, ancora ipnosi E2-E4, ancora linee di basso in deep-funk, quel grande senso della melodia sopra ogni cosa a pervadere di malinconia gli ultimi istanti della nostra crociera spaziale, di nuovo uno spleen a metà strada fra italo disco, pop d’antan e il finale triste di un vecchio film dei Vanzina.

“Where You Go I go Too” è un viaggio che potrà annoiare qualcuno, magari risultare estenuante o faticoso per altri. Potrà sembrare una meravigliosa passeggiata per chi è arrivato a destinazione in un batter d’occhio, soddisfatto e riposato, senza neanche accorgersi delle enormi distanze percorse. Quasi come avesse volato.

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