DENNIS WILSON, Pacific Ocean Blue (Caribou, 1977 – Legacy, 2008)

Complice una poderosa ristampa su Legacy che lo “spalma” su doppio cd, il nostro Disco per l’Estate appena trascorsa spunta da un buco spaziotemporale di trent’anni e passa: lo firma, a buon titolo, uno dei tre fratelli Wilson, noti alla California tutta come i “tipi da Spiaggia”.

Uscire allo scoperto con un lavoro solista era anche una scusa per svicolare via da una fase non troppo felice per la vita di gruppo, nonchè dalle paturnie di un fratello maggiore per età e fama, Brian, da poco tornato con tutte le sue bizze a rendere ulteriormente difficile la sopravvivenza di un avventura già verso il tramonto. Ma nell’anno di fuoco del Settantasette, chi non rispondeva alla chiamata alle armi del punk aveva quasi l’obbligo morale di sposare la causa della sperimentazione o del pop sofisticato: e così anche il secondogenito dei Wilson che, troppo morbido e sognatore per dirottare alla volta della Londra che Brucia, si ritrova una volta ancora a contendersi lo stesso spazio dell’ingombrante consanguineo: spazio nel quale Brian aveva appunto creato un importante precedente con il fantomatico “Smile”, andato a pezzetti in una notte brava di dieci anni prima e diventato in men che non si dica una leggenda del pop sinfonico.

Nuovamente sotto l’ombra lunga del fratello, Dennis cerca ugualmente di fare la sua cosa e zitto zitto mette assieme l’album balneare perfetto, alla faccia dei tanti anni di surfing pop alle spalle! Escludendo le bonus tracks aggiunte a posteriori, “Pacific Ocean blue” non supera trentadue minuti eppure pare ugualmente un Oceano, tanti sono i riferimenti al meglio del panorama angloamericano contemporaneo. Si ascoltino le eco di chitarra gilmouriane che introducono “Dreamer”, così vicine a quelle di “Shine on You Crazy Diamond”. Oppure la precisione con cui “Moonshine” preannuncia in nemmeno tre minuti il Peter Gabriel so(u)lista e giramondo che sarà, quando l’interessato si era appena lasciato alle spalle gli ultimi capricci dei suoi Genesis. Dal grosso bagaglio personale che si porta con sé Wilson estrae invece le armonie vocali beachboysiane per declinarle sull’architettura gospel di “the River Song”, rivelando peraltro un’ugolaccia blues che non era affatto scontato attendersi da un surfer. E invece proprio quella vena roca e dolente era spia di un lato oscuro che ben presto sarebbe emerso in tutta la sua tragicità: sei anni dopo, con una dipendenza dall’alcool e un’amicizia con Charles Manson di mezzo, Dennis cadeva ubriaco in quelle stesse acque marine che aveva cantato. A mo’ di testamento lasciava le registrazione di “Bambou”, un’altra leggendaria Incompiuta della musica leggera che nella riedizione deluxe viene messa in coda, come disco aggiunto: con buona pace dei suoi complessi da eterno secondo, genio e sregolatezza in casa Wilson si rivelavano doti drammaticamente genetiche.

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