NICK CAVE, Dig, Lazarus, Dig!!! (Mute, 2008)

Nella conferenza stampa in cui ha presentato il nuovo album (vedi speciale), o meglio avrebbe dovuto presentare il nuovo album vista l’innata propensione alla divagazione, Nick Cave ha ammesso che essere arrivato a cinquant’anni è stato solo un incidente di percorso. Spettro, quello dell’incidente di percorso, che almeno discograficamente non si è ancora materializzato in una carriera quasi trentennale. Il gravoso compito di continuare a esorcizzare questo spettro spetta al quattordicesimo capitolo dell’affascinante epopea del cantautore australiano. Uno tra i pochi contemporanei in grado di scivolare senza traumi dagli aggressivi e foschi episodi della seconda metà degli anni ’80 alla svolta spirituale di “The Good Son” addentrandosi poi in nuove morbose inquietudini figlie dell’innato gusto per il noir fino alla definitiva redenzione intimista che ha il suo apice in “The Boatman’s Call”, crocevia dei successivi album della definitiva consacrazione nell’olimpo dei crooner più autorevoli del nostro tempo.

Nuovamente affiancato dai Bad Seeds al completo dopo la bizzarra esperienza garage del quartetto­-Grinderman (vedi recensione), questo “Dig, Lazarus, Dig!!!” risente non poco, almeno nel suo ideale lato A, dell’eloquente espressività visceralmente riesplosa nelle emorragie più rumorose del doppio “Abattoir Blues / The Lyre Of Orpheus”. Così quell’aria da revisione noise/blues delle funeree nenie di New Orleans che si respirava in brani quali “The Lyre Of Orpheus” o “Hiding All Away”, pur senza il supporto delle voci nere femminili, rivive anche nel nuovo lavoro. Nella ruvida titletrack in cui il malcapitato Lazzaro (il personaggio biblico cui Nick implora di scavare) è catapultato nei panni del mago di Houdini nel 1977 della cinica New York del CBGB e dello Studio 54 in cui “nel fare sesso si provava lo stesso sentimento che si sarebbe provato suicidandosi”; negli incessanti groove intessuti dai Semi Cattivi tra hammond, grovigli di chitarre e pause pseudo-industrial nell’acida “We Call Upon The Author”; nel brano – a detta di Nick – dal testo più disturbante mai scritto (parallelismo tra gli sguardi degli uomini su Marilyn Monroe e gli sguardi di camionisti e bifolchi depravati sull’allora dodicenne moglie Susie) “Today’s Lesson”, dalla quale emerge il presunto proposito di scrivere un disco sospinto da chitarre acustiche molto aggressive sul modello di “Henry’s Dream”. Proposito, tuttavia smentito dall’incorreggibile Re Inchiostro che ha ritrattato subito ammettendo di aver scritto le canzoni per metà con la tastiera giocattolo dei suoi due figli gemelli e per metà con l’apporto molto più partecipe che in passato di Mick Harvey, Martyn Casey, Jim Sclavunos, Thomas Wydler, James Johnston, Conway Savage e, soprattutto di Warren Ellis che prova a riempire con la chitarra più che col fedele violino gli spazi vuoti lasciati da Blixa Bargeld a livello di rumori e saturazioni.

Proposito, quello di cui sopra, che emerge meglio nel liberatorio sfogo di “Albert Goes West”, il brano più eighties della raccolta, e non certamente degli anni ’80 dei Bad Seeds quanto piuttosto di quelli dei Jesus & Mary Chain, rievocati nei coretti svampiti che annaspano nelle rapide di un fiume in piena di distorsioni e virate psichedeliche un po’ come gli abietti personaggi descritti annegano nell’alcool e nell’oblio in locali poco raccomandabili. Locali che inevitabilmente richiamano quella Melbourne malfamata che marchiò a fuoco la sua vita oltre che la sua carriera musicale, quando i testi di Cave permeati non poco dal conflittuale rapporto con l’eroina, pur non privi di quelle suggestioni tra il mistico e il religioso esplose poi nel romanzo “E l’asina vide l’angelo”, erano ben lontani dalla matura tendenza di proporre un incontro tra temi mitologici e sfondi contemporanei. Come dimostra un brano molto più anni ’80 sponda-Bad Seeds, per l’arida claustrofobia impressa dall’ipnotico arrangiamento tra Suicide e Einstϋrzende Neubauten che accompagna “Night Of The Lotus Eaters”, magnetico sermone blues contro i mangiatori di loto, gente offuscata dall’autocompiacimento nel guardare al caos della realtà.

La suggestiva “Moonland” (sottofondo notturno tra organo e percussioni, ideale seguito di “Messiah Ward”) e la desertica “Hold On To Yourself” in parte ispirata alla controversa figura di Valerie Solanas – la femminista che sparò a Andy Warhol nella Factory – sono in linea con le avvolgenti ballad crepuscolari dell’ultimo album. Mentre “Lie Down Here (& Be My Girl)” è una di quelle cavalcate irrequiete e cinematografiche alla sua maniera. Una dissonante chitarra elettrica strozzata e delirante apre la strada per poi rincorrere l’inimitabile timbro baritonale di Nick in un’ammaliante fuga verso l’oscurità tra inquietanti controcori e un pianoforte narrativo. L’ex-maledetto non si smentisce ideando un Cristo femminile e carnale nella toccante “Jesus On The Moon”, che non sfigurerebbe nella morbida intensità di “Murder Ballads” e “The Boatman’s Call”, non solo per l’incantevole violino del leader dei Dirty Three che nel resto del disco è tenuto quasi completamente in soffitta.

Se, infine, la psichedelia di “Midnight’s Man” in quell’organo coagulato all’accompagnamento liquido e stridente ha nel crescendo la forza catartica dei gospel, “More News From Nowhere” ne discende ancora più direttamente, almeno nel motivo. Al di là dell’atmosfera vagamente affine a Lou Reed, i sette minuti conclusivi di “Dig, Lazarus, Dig!!!” danno l’idea di di un divertito rituale (un po’ come le sedute spiritiche fatte girare sul web per presentare l’album) di rievocazione dello spettro di una “Deanna”, rallentata e depurata dal furore dell’irripetibile “Tender Prey”.

Quasi un’allegoria del suo cammino, mentre – non che a lui sembri fregare qualcosa – lo spettro dell’incidente di percorso sembra ancora una volta sventato.

Inutile obiettare. Lazzaro continuerà ostinatamente a scavare…

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