Marlene Kuntz, il commento ai testi di “Uno”

leggi i testi di “Uno”

a cura di Matteo Marconi 

“Ed ora, qualcosa di completamente diverso”. Viene alla mente un titolo famoso dei Monty Python per definire la rivoluzione copernicana con la quale Marlene disfa e ricompone la sua musica, allontanandosi dalle atmosfere rarefatte e ancora metalliche di “Bianco Sporco”, per veleggiare verso la dimensione più calda, intimista e panica di questo “Uno”.

Anche i testi subiscono uno strappo compositivo notevole rispetto al passato: laddove vi era un uso furibondo dell’aggettivazione – peraltro mai ridondante – che ben si sposava alla atmosfere claustrofobiche e nervose dei primi 5 lavori in studio, troviamo ora una tendenza a contenere ed a sottrarre, ed anche a limare le parole, sulla scia di un suono che – pur abbondantemente e superbamente arrangiato – regala all’ascoltatore una levità – non leggerezza – davvero inusuale per il gruppo di Fossano. Una levità che sa di infelicità conquistata e quieta, non più angosciata e scalciante come in passato.

Come sempre non v’è una parola di troppo e quel che rimane del lavoro di ripulitura dei testi (che, come penso, appaiono più scarni che in passato), suggerisce la profondità dell’iceberg che rimane ben nascosto sott’acqua, lasciando che sia la musica ad indicare il tragitto.

“Uno” – lo dicono chiaramente le note di copertina – è un omaggio al poeta scrittore russo-americano Vladimir Nabokov, sintetizzato con questo inciso, nella seconda pagina del booklet: “L’amore. Due persone in una, un solo pensiero, una sola ombra che cammina, ecco perché esiste un solo numero: UNO! E l’amore moltiplica infinite volte questa unicità”.

Se pertanto la dichiarazione d’intenti è esplicita (si tratta di un lavoro che pone al suo centro l’amore), durante l’ascolto delle tracce mi è sembrato di notare una sorta di sviamento di questa introduzione. I testi delle canzoni non sembrano sposare infatti questa idea di unicità, ma narrano – il più delle volte – di un fallimento a due, di amanti ignavi, riluttanti, colpevoli, distanti, crudeli (con l’eccezione, per certi versi paradossale, di “Sapore di miele” e “Canzone sensuale”). Che questo simbolico “uno” non serva ad altro che ad indicare che, stando assieme, si è comunque soli? E che dire dell’inciso: “Uno! L’amore moltiplica infinite volte questa unicità”: una contraddizione in termini, un Uno che si ripete all’infinito, come infinite sono le storie che si sciolgono e si intrecciano sotto il sole.

Canto” è la prima traccia. Irrompe nella mia stanza in modo davvero straniante. La mia prima sensazione è stata di controllare se non si fosse attaccata la radio, e non si trattasse piuttosto di Battiato. No, è Marlene. E’ Godano che ha deciso di tirar fuori un registro alquanto lirico, sognante, stranito, levantino. L’incedere atipico del pezzo, ben più confacente ad una “serenata”, si sposa probabilmente con uno studiato effetto disorientante, lasciando che le parole di nausea e rimorso fossero cullate dal lirismo della musica.
Canto ripropone uno dei “topoi” della poetica Marlenica: il fallimento di una storia è foriero di colpa, e la colpa del protagonista di questa lirica (come ne “la Lira di Narciso” da Bianco Sporco), è quella di non sapere amare. E’ una sorta di coazione a ripetere (“di quel che sciupai ben piu’ sciuperò”) che porta a sperimentare continuamente “l’amore”, benché l’esperienza sia destinata a franare, a risolversi traumaticamente nel disincanto, nello spreco. L’amore diventa gabbia e il rammarico del fallimento si oggettivizza in un “demonio” condannato a vagare senza posa. Ricorrente nella tematica marlenica è questa incomunicabilità e questa lontananza insondabile tra le persone, sperimentata, sofferta e forse blandita perché il protagonista di questi racconti di separazioni è ben cosciente di una sorta di “inettitudine” a dare, che si risolve immancabilmente in “apatia”.

Con “Musa” Marlene parla invece, come mai prima, di un idillio amoroso, in cui la donna diventa – in un noto cliché artistico – anche fonte di ispirazione poetica.
Da notare in questo pezzo il pianoforte “periferico” di Paolo Conte che segue il pezzo divagando, di tanto in tanto, alla sua “periferia”, con un effetto eccentrico (per i primi ascolti) e poi sempre più emozionante. Anche in questo testo l’idillio non è mai completo, l’inciso “e non voglio sapere quando, come e perchè questa meraviglia alla sua fine arriverà”, appalesa ancora una volta quella che è una costante esistenziale della poetica marlenica: la felicità è accidente, mentre l’infelicità è sostanza.
L’innesto delle chitarre elettriche su “voglio aver bisogno di te come di acqua confortevole” aggiunge all’idillio uno strappo doloroso che raggiunge – per il sottoscritto – il suo acme con le parole “vuoi aver bisogno di me?”, una richiesta d’aiuto in un contesto (il racconto di un idillio amoroso incontrastato) in cui non ce lo saremmo aspettato. In “111” ritroviamo Marlene alle prese con uno dei suoi virtuosismi letterari: contrarre in poche parole una storia completa di sceneggiatura (un altro caso eclatante “L’agguato” , “Malinconica”).

111” è la storia di un matrimonio ordinario, di ordinaria goffaggine e povertà intellettuale (l’affitto del “podere padronale”, il viaggio di nozze “sulle spiagge del grecale”), trascinatosi blandamente e, cosa non irrilevante, senza amore (“lei lo amava in qualche modo”, “lui la amava più che poco”).
Marlene sembra voler accompagnare questi sposi riluttanti e volgari, con ironia, al placido tramonto di una vita in due sacrificata all’ordinarietà di una insoddisfazione cheta, fino a che non irrompe un crollo. “Con rapidità volgare”, la vita di coppia di pingui sposi annoiati prende una brutta piega, i litigi avvelenano la vita di un figlio (“il fanciullo assai vezzoso”) e i due scendono mirabilmente la china del disamore e dell’odio, con illuminante psicologia descritta dal venir meno di amore, sesso, condivisione del letto e dialogo. Il tutto termina – e non pare storia inverosimile! – con un omicidio a colpi di martello, descritto nei dettagli nel parlato finale, una sorta di confessione allucinata presa integralmente dai verbali di polizia di un non inverosimile processo, nella paranoica provincia italiana.
Il testo si conclude, immaginificamente, nell’urlo dell’omicida che invoca “qualcuno ha voglia di pregare per me?”.

Canzone Ecologica” è uno dei vertici letterari di “Uno”. Il titolo è ingannevole: l’ecologia che Marlene canta non riguarda i nostri mari, ma noi stessi. Siamo subissati di parole inutili, strepiti, bocche ghignanti che urlano bestialità. E’ la volgarità dei tempi e dei pensieri che, paradossalmente, in questa canzone, sembra poter inquinare l’universo e la sua sferica armonia (“le parole sono importanti!” raccomanda Nanni Moretti in “Palombella Rossa”).
L’alternativa è il ritiro in se stessi (“forse sarebbe più bello tacere”) “persi per sempre dentro di noi” (“Lieve” da “Catartica”), anche perché l’artista, quando crea, uccide la sua ispirazione (“solo ad esprimerli in verbi e parole non son più verità”), e le verità dei suoi pensieri si stingono “entrando” nel mondo; tuttavia l’artista deve scegliere, ed allora non gli resta altro che “sceglierle bene” quelle parole, e tentare di creare qualcosa, uccidendo qualcos’altro, in modo che tutto s’accordi il più possibile con la “musica della sua anima” e non si faccia strepito.
“Canzone ecologica” sembra chiudersi sull’immagine del poeta che sembra poter trovare “le parole per dirlo” quando “il suono infinito” (l’ispirazione?) lo abbandona di nuovo irrimediabilmente, ed il rumore bianco degli uomini (“l’umano ululato strepita”) copre l’anelata armonia delle cose mute. La frase finale – per intensità poetica – chiude in uno strozzo qualsiasi speranza.

In “Sapore di Miele” troviamo davvero Marlene come non l’avevamo mai vista prima. Si tratta di una galoppata (in tutti i sensi) lasciva, autoironica e svagata che vede impegnati in un furibondo corpo a corpo un “duro Priapo” e una generosa menade, avvolti negli effluvi che la signorina generosamente dispensa al suo tonico amante.
E’ proprio questo nettare che regala ad un Satiro ormai stremato (“collassante”) nuovi argomenti per un nuovo “sù e giù”, ed è alle prese un nuovo round amatorio che lasciamo i fortunati protagonisti di questa panica canzone.

La Ballata dell’ignavo” riprende il tema di “Canto”, ancorandolo ad una lettera ricevuta e mai oggetto di risposta. Chi non sa o non può amare è un ignavo, l’amore negato si risolve in condanna da espiare, la condanna è la solitudine e la distanza dagli altri, “persi per sempre dentro di noi”.
In questa vicenda minimale una donna – cui tradizionalmente Marlene attribuisce una forza e una coerenza nell’amore indistruttibili (ma è davvero così?) – pone l’ignavo davanti alle sue responsabilità: egli ha finto, non ha dato, non ha rischiato, ma ha la possibilità di cambiare se stesso, lei lo aspetta. Tutto inutile, in un gesto irresoluto il protagonista relega la lettera in un immaginario “dead letter office”, perdendola per sempre. L’immagine mi riporta al racconto “Bartleby lo scrivano” di Hermann Melville: v’è qualcosa di più triste e definitivo di una lettera cui nessuno ha mai risposto?

Negli abissi fra i palpiti” ci pone davanti agli occhi una scena interessante: il protagonista ha davanti a sé la persona amata, e sa essere “ricettacolo” delle nubi che le oscurano il viso, sa fare della sua infelicità, improvvisa e cruenta come un temporale estivo, una fonte di ispirazione. Come un “pioniere partecipe” egli s’insinua negli abissi e fra i palpiti, per “dir di lei”, nella consapevolezza che l’infelicità, anche quella altrui, è generosa dispensatrice di suggestioni (“stimolo inevitabile”).
Di qui il tema si amplia, e Marlene ora si chiede se l’arte sia come una “fontana” che sgorga da sé e trae da se stessa la propria ragione d’essere, o se l’arte (e l’artista) non sia piuttosto paragonabile ad una “spugna” che attinge al mondo, alle persone , alle cose, dando loro una nuova veste. L’occasione di una tempesta emotiva che rannuvola lo sguardo alla donna amata porta l’artista ad una conclusione chiara: io sono come una spugna, la mia forza consiste nel dare valore “ad ogni goccia del tuo oceano”, lascia quindi che scriva una canzone per te, lascia che dia “lustro alla tua dolorante dolcezza”, solo così ti potrò aiutare.

Fantasmi” è pura invettiva, sulla scia di altri pezzi che “non l’hanno mandata a dire” (“A chi succhia”, “Mala Mela”), Marlene coglie l’occasione per mettere alla berlina un tipo umano purtroppo ampiamente diffuso nel mondo della musica: il recensore preventivo, maligno, supponente, ingrato: lo “sputasentenze”. Forse si tratta di una persona precisa, perfettamente individuabile, tuttavia il tizio così delineato si fa agevolmente paradigma.
I fantasmi del titolo sono tutti coloro, senza faccia e senza nome, dai quali attinge notizie la tipologia umana dello sputasentenze, il più delle volte superbamente prevenuto verso un artista ed il suo lavoro, il cui hobby particolare si sostanzia nella raccolta di “dicerie, gran bugie” variamente assortite.
Il tipo umano dello sputasentenze notoriamente non possiede le qualità che a sua volta rinfaccia agli altri di non possedere, dentro di sé invidia e subdolamente anela il giorno in cui vedrà il suo bersaglio crollare ingloriosamente.
Disgraziatamente, nonostante la lieta novella recatagli dai fantasmi, il nostro oscuro travet della diffamazione non avrà soddisfazione, la vittima dei suoi intrugli se la passa piuttosto bene, e lui “senza trofei” se n’è dovuto rientrare in città, più livoroso e frustrato che mai.

Dalla Polemica di “Fantasmi” alle tinte esistenzialistiche (tipico marchio di fabbrica marlenico) di “Abbracciami”.
Il testo lavora su due piani separati che si uniscono alla fine. Sul primo, una meditazione sul significato delle miserie umane sottolineato dalla citazione del Libro Biblico dell’Ecclesiaste (“vanita delle vanità tutto è vanità”), induce Marlene ad abbandonarsi alla gioia fugace della stagione presente e viva (viene in mente l’antico adagio “cogli la rosa finché puoi…”). Nello stesso solco “le favole che raccontano dell’aldilà” (bibbie ed affini) non sono altro che compassionevoli tentativi di sopire l’angoscia della fine, come inconcepibile ed anche difficilmente pensabile è il pensiero di perdere per sempre chi se ne va e non ritorna.
In secondo piano c’è il “baccano” della bellezza (essa stessa vanità) e dell’amore sensuale, che si accompagna alla strana pretesa di poter mettere a tacere, per un attimo, la consapevolezza della miseria umana.
E’ la linea d’ombra di questa consapevolezza che avanza inarrestabile, è l’attimo voluttuoso che viviamo che c’illude di allontanarla.
Suggestivo, in inglese, il dialogo dei due amanti:
“Tu dici che Tutto è vanità, amore mio”- lei rispose.
“Amore mio, ma ‘tutto’ significa che anche le nostre parole sono vane” di nuovo disse lei.
“Tutto può essere bellissimo ora, piccola mia – dissi io – ed anche la bellezza, dovrà comunque soccombere”.

Canzone sensuale”, alla stregua di “Sapore di Miele”, è un testo assolutamente stravagante per la produzione marlenica. Accantonata l’idea autoironica che sembrava poter emergere dal secondo, farcito com’è di Priapi e signorine, “canzone sensuale” è, nella sua linearità e tradizionalità, un testo d’amore. O meglio, un testo su quello stato euforico e stuporoso che tutti quanti provano quando non riescono a togliersi “quella” persona dalla mente. Forse non all’altezza del resto della produzione artistica e delle altre canzoni dell’album, “Canzone sensuale” (con quella “vita in blu”) non si lascia ricordare e non punge. Unico episodio sotto tono di un disco pieno di pathos, il testo sembra il prodotto coerente di un momento di felicità assoluta da cui è difficile far scaturire parole importanti, essendo tutti quanti troppo impegnati a viverla (la felicità, intendo).

In “Stato d’animo” il “vessillo nero dell’angoscia” viene innalzato sul capo di Godano che, con tratto delicato e immagino autobiografico, ci accompagna nello sprofondo di una giornata uggiosa. Le nubi “opprimono”, la sensazione è che ovunque vi sia qualcosa di sinistro e sfavorevole, le cose più familiari diventano “fredde, aliene, bieche”.
Questa giornata inizia con un tremore, uno spavento ricollegabile ad una cattiva notizia e prosegue con una sorta di funesta ruminazione sul proprio destino “individuale”, che s’allarga ai destini del mondo, di questo mondo (“e tu mondo come stai? E in che direzione andrai?”).
Davvero bellissima è la descrizione (un anticipo del futuro sviluppo in prosa) del padre che porta il figlio a casa da scuola, tenendolo per mano, tentando di consolarlo perché qualche compagno di scuola – probabilmente – l’ha picchiato (“prendo mio figlio a scuola, noi camminiamo piano, il suo ventre un po’ gli duole, tengo stretta la sua mano”), per poi dire dentro di sé “la gente non è buona”.
L’inciso “domani tutto si risanerà”, con la virata della musica su toni che sanno di sollievo rispetto alla cappa perturbante della strofa, alleggerisce la tensione che grava su tutto il pezzo come le basse nubi opprimenti sulla città.
Testo superbo, grave, in chiaroscuro, che ha la forza di evocare immagini nitide e delicate: strade urbane desolate, un cielo grigio metallico, un uomo solo, il volto oscurato da un cruccio, un uomo che accompagna un bambino a casa, un sorriso del bambino.

“Uno” termina appunto con l’omonima “Uno”, ideale epitaffio sulla parola Amore, qualunque cosa esso sia.
In un moto sottile Marlene si domanda se non ci sia “qualcosa di sbagliato nell’amore”, quando la perfezione e l’idillio dell’incontro più appassionato e sincero e puro finiscono per risolversi nella sconfitta. Viene alla mente una poesia del poeta Americano Robert Frost il quale, nel descrivere la fugacità incomprensibile di una separazione, così scriveva: “Improvviso, rapido e leggero il loro legame si sciolse, ed egli imparò che vi è un modo di morire, oltre alla morte” (“The Impulse”). E’ nell’approssimarsi della fine, così bene descritta da chi sente ancora amore ma non riesce più ad avvicinarsi all’altro (“Non ho mai cessato di amarti ma non riesco più a baciare la tua faccia non ho mai cessato di amarti ma non riesco più a sfiorare la tua faccia”), dalla descrizione così viva di questa improvvisa distanza, così inspiegabile, che scaturisce questa sensazione di “tremenda condanna”.

Ed è con questo sentore di sconfitta che termina “Uno”. Ecco la storia dell’amore declinato dalla poesia di Marlene, in questa nuovissima veste sonora: tradimento, ignavia, omicidio, sensualità, incomunicabilità, effimeri rapimenti, rimorso, distanza, dolore.
I testi si sono “aperti”, quasi ad anticipare la prossima pubblicazione del debutto letterario di Cristiano Godano, ma Marlene (basta leggere con attenzione) è sempre tra noi, con la sua arte scontrosa, che qualche fantasma non ha saputo (o voluto) ascoltare, parlando inopinatamente di tradimento.
Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, si chiedeva Raymond Carver: di un paradosso, risponderei io. E “Uno” è un paradosso perfetto. “Uno come fusione di anima e corpo”, è questa l’unicità di cui parla Nabokov? Uno come simbolo di separazione, piuttosto, Uno quale solitudine e incomunicabilità, Uno come essere da soli assieme.
E questo è vero dopo perpetua sconfitta.