A HAWK AND A HACKSAW, The Way The Wind Blows (Leaf / Wide, 2006)

“I Balcani sono una polveriera”: quante volte lo abbiamo sentito dire, e quante volte questa frase si è poi rivelata vera? Un’Europa ancora nascosta, che il mondo ha imparato a conoscere solo attraverso i film di Kusturica e Paspaljevic; eppure, la vitalità musicale di quelle terre è ancora tutta da indagare. Ci ha pensato Goran Bregovic, certo, che i serbi accusano di aver rubato le melodie rom e di averle svendute all’Occidente; la Kocani Orkestar ha prestato i suoi servigi ubriachi a Vinicio Capossela: eppure, possibile che per riscoprire un focolaio di musica meravigliosa dovessero arrivare due americani di Albuquerque, New Mexico, come Zach Condon (con i suoi Beirut) e Jeremy Barnes, ex-batterista di uno dei gruppi indie-rock più citati e meno conosciuti al mondo, i Neutral Milk Hotel?

Proprio Barnes, con i suoi A Hawk And A Hacksaw, ha impiegato due album ad arrivare al nocciolo della questione, e ora, con “The way the wind blows”, ha capito una cosa fondamentale: pure in mezzo alle tradizioni musicali che cambiano da paese a paese, il vero cuore della musica balcanica è la festa, la celebrazione del suonare assieme, e poco importa che siano marce funebri (la dolente “In the river” d’apertura) o danze scatenate (“Gadje sirba”). Ed è una musica, questa, che si conosce e si impara solo viaggiando, stando a contatto con la gente, ripescando la gioia del fare musica: per “The way the wind blows”, Barnes ha ricostruito una mappatura dell’Europa dell’est fatta di note, radunando attorno a sé la violinista klezmer Heather Trost (straordinaria nel dettare il tempo alla forsennata “The sparrow” o a invitare a una lenta danza circolare in “Waltz for strings and tuba”), la Fanfare Ciocârlia (brass band romena che borbotta al suo meglio riprendendo la melodia tradizionale di “Gadje sirba”) e lo stesso Zach Condon dei Beirut (alla sua tromba il compito di scuotere in cuore agitato di “Fernando’s giampari”); infine, ha portato tutti in un piccolo villaggio della Romania, Zece Prajini, dove il disco è nato in un clima irripetibile.

Trenotto minuti anarchici e gioiosi, anche quando l’atmosfera sembra farsi mesta: suonare, in questi luoghi, è recuperare le proprie radici (che cosa ci farebbe altrimenti l’oud in “God bless the Ottoman Empire”, se non ricordare la lunga dominazione turca sui Balcani?), celebrando ogni occasione. Per chi è stato in queste terre, “The way the winf blows” sarà un tuffo al cuore, e dovrà sforzarsi per non correre a fare la valigia e ripartire; per tutti gli altri, sarà solamente (?) la (ri)scoperta di un mondo musicale altrimenti trascurato, se non fosse stato per un’etichetta di culto come la Leaf o per un eroe minore dell’indie-rock come Barnes, che non vedeva l’ora di sbarazzarsi di quell’etichetta per appiccicarsi addosso quella, molto più degna, di viaggiatore curioso.

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