MY BRIGHTEST DIAMOND, Tear It Down (Ashtmatic Kitty / Goodfellas, 2007)

Ahimè. Shara Worden è stata colpita dal morbo dell’amico Sufjan Stevens: pubblicare, pubblicare, pubblicare. Il risultato è un disco di remix, questo “Tear it down”, che giunge a soli sei mesi dal debutto, il bellissimo “Bring me the workhorse”. Se ne poteva fare a meno? Certo. I fan ne possono fare a meno? Direi di no. Le tredici nuove versioni (all’appello manca solo “The Robin’s jar”) sono un tour de force tra le varie facce dell’elettronica, e quello dei remixer non è stato certo un compito facile: quasi tutte prive di un supporto ritmico importante, le canzoni di “Bring me the workhorse” non sono facili da stravolgere o da reinventare, con quelle strutture così solidamente melò, ricche di quartetti d’archi e di una voce virtuosistica.

Il meglio di “Tear it down”, inevitabilmente, arriva quando intervengono i pezzi grossi: Alias accarezza “Golden star” facendola diventare la sintesi perfetta tra il suono anticon e quello Morr; Lusine toglie a “Workhouse” la sua patina ansiosa; Murcof, invece, si conferma straordinario, costruendo intorno a “Draginfly” un mondo di micro-suoni pur lasciando intatta la linea vocale e melodica. Il resto non è allo stesso livello di queste tre tracce: si salvano una “Magic rabbit” trasfigurata in un carillon graffiato da Alfred Brown, o la “Disappear” (già inclusa nell’EP omonimo) che plasma un trip-hop orchestrale attorno alle prodezze vocali di Shara, ma poi tutto scolora in un sottofondo poco personale.

Nota di demerito per le due versioni di “Freak out”; in origine la più pjharveyana delle tracce, qui viene letteralmente massacrata dall’idea di trasformarla in una dancefloor hit: Gold Chains la fa sembrare uno scarto infimo dei 2 Many DJs, mentre Kenny Mitchell la imbastardisce con trame sintetiche dei New Order più dancey mischiate a insensate incursioni drum ‘n’ bass.

Insomma, non è questo il nuovo disco di My Brightest Diamond che i fan avrebbero sperato, eppure solo a loro possono interessare questi remix; gli altri, partano pure dal bellissimo – e snobbato, chissà perché – “Bring me the workhouse”, per sentire ben altre meraviglie.

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