BRITISH SEA POWER, The Decline Of British Sea Power (Rough Trade, 2003)

Che l’eccentricità sia una caratteristica di base dei British Sea Power lo si intuisce già dal titolo di quello che è l’esordio ufficiale di una delle bands più all’avanguardia della cosiddetta scena di Brighton. La storia è presto fatta: passioni per il birdwatching, le camminate nella natura e la letteratura cecoslovacca si mescolano durante le loro serate Club Sea Power in un locale della cosiddetta Londra sul mare. Qui il quintetto mette a punto le proprie canzoni durante esibizioni live tanto bizzarre (il gruppo si presenta vestito di uniformi della marina britannica degli anni ’20) quanto esplosive che attraggono un numero sempre più vasto di estimatori. Passa la voce, esauriscono i primi singoli, gavetta a supporto di Flaming Lips (fans dichiarati così come REM e Lou Reed) e Clinic. L’esordio sotto Rough Trade, messo assieme con pezzi ri-registrati delle prime uscite e nuove composizioni, tutto sotto la preziosa assistenza di Mads Bjerke (già collaboratore con i Primal Scream), sarà col botto.

Si parte in quarta dopo i trenta secondi di cori gregoriani di “Men Together Today”: “Apologies to Insect Life” e “Favours in the Beetroot Fields” sono veri e propri pugni nello stomaco. Attitudine punk da una parte, chitarrismo agli eccessi dei Pixies più feroci dall’altra. Una miscela esplosiva da restare senza fiato. La bellissima melodia di “Something Wicked”, dove trova un consistente spazio l’organo e Yan sembra cantare col naso chiuso, riporta le cose in una dimensione più quieta di pop raffinato e sognante. Ci pensa “Remember Me”, singolo dal riff di chitarra tanto catchy quanto maestoso, a mettere in chiaro le cose: i British Sea Power puntano in alto a forza di ritornelli brillanti e di un songwriting ispirato. “Carrion” è semplicemente di cristallina bellezza così come la marittima “Fear of Drowning”, celebrazione della “little England” che i nostri portano dichiaratamente nelle loro composizioni. Anche “Blackout”, dove la voce passa invece al fratello Hamilton, è un pezzo pop dolce e incantevole. Si chiude alla grande con tredici di minuti di “Lately”, un vero e proprio cult in concerto: temi portati agli estremi, abbandonati e ripresi vigorosamente. Il tutto condito da uno spiccato senso per gli arrangiamenti in toni epici che non possono non catturare ed ammaliare. Gli ultimi minuti danno la misura di quanto accade dal vivo: delirio di rumori e chitarre a strati dove ci si può solo immaginare la follia che sembra possedere il gruppo sul palco. Conclusione al piano con “A Wooden Horse”, per calmare le acque e far arrivare l’ascoltatore alla fine con più di un’idea da chiarire.

Si sono sprecati i paragoni con Echo & the Bunnymen, Psychedelic Furs e altri illustri nomi del pop psichedelico anni ’80 di marca inglese. Restano invece undici tracce ambiziose e un futuro tutto da scrivere. Un album di debutto da sviscerare e da cui farsi conquistare ascolto dopo ascolto. L’inghilterra, in quel periodo ai piedi dei Libertines, si è scoperta invece affascinante e più che mai conquistatrice.

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