JONNY GREENWOOD, “Bodysong” (Parlophone, 2003)

Ogni giorno un anniversario, se volessimo, ma noi “festeggiamo” solo quelli che contano: ieri “Up” e oggi quello del 20ennale del primo album solista di Jonny Greenwood, quello che ci fece capire che razza di genio era. Occasione di offrirvi la recensione del disco (non presente negli archivi di Kalporz) nella rubrica “Richiami”. 

Richiami

Delle varie ramificazioni di quel tronco d’inventiva che sono (o sono stati?) i Radiohead, fu Jonny Greenwood quello che per primo ha aperto la porta alle divagazioni soliste dei membri della band.

Più o meno vent’anni fa (!), con il gruppo inglese in giro per il mondo per il tour di “Hail To The Thief”, il più piccolo dei fratelli Greenwood dava alle stampe “Bodysong.”, una colonna sonora per il film realizzato dal regista inglese Simon Pummel. Una pellicola che mette in scena la vita umana, dal concepimento alla morte, attraverso immagini altrui, senza bisogno di parole: una pura tela visiva invasa dalle astrazioni strumentali del musicista britannico.

Jonny Greenwood

Per questo omaggio alla vita, al corpo e alla carne, il chitarrista e polistrumentista dei Radiohead imprime su nastro una musica fatta di contrasti, tanto fiabesca e sognante quanto abrasiva, traboccante, ribollente e magmatica. A dominare il paesaggio sono le ispirazioni della musica colta novecentesca, evidenti già dal primo brano: “Moon Trills” è una rimasticazione della “Louange à l’Éternité de Jésus” del compositore francese Oliver Messiaen – vera ossessione del nostro già dai tempi in cui, giovanissimo, studiava… la viola! – distillata su echi radioheadiani; altre gocce cameristiche si spandono sulle note crepuscolari per quartetto d’archi di “Iron Swallow” e della finale “Tehellet”, che sembrano contenere in sé gli spermatozoi del suo lavoro successivo, la colonna sonora de “Il Petroliere”; pulsioni avanguardistiche dominano invece “Convergence” – e questa ne “Il Petroliere” ci è finita proprio cosi com’è – , partitura per sole percussioni appositamente sfasate che si mettono a fuoco pian piano, come due persone che si ritrovano dopo essersi perse di vista. Guardano invece aldilà dell’oceano “Splitter” e “Milky Drops From Heaven”, nervosi lampi sonori di rimuginazioni jazzistiche hard bop, suoni in reverse e esplosioni free jazz.

Se facciamo un passo indietro e posiamo l’occhio sul quadro nel complesso, “Bodysong” scorre rapido come sangue nelle vene e al tempo stesso razionalizza l’insieme come una mente sempre attiva, onnivora nel cibarsi di stimoli e curiosità. E’ un disco che non solo ci restituisce parte delle passioni di uno dei musicisti più riveriti dei nostri anni – e ci permette anche di giocare ad indovinare quanto di Greenwood ci sia nei brani dei Radiohead, oltre che di cogliere i punti di intersezione con le idee di Thom Yorke, in una sorta di occhiata dalla serratura della stanza creativa della band -, ma che soprattutto ci conduce in un viaggio squassante e diabolicamente geniale di tre quarti d’ora. Da recuperare!

80/100

(Edoardo Maggiolo)