THE GUILLEMOTS, Through The Window Pane (Polydor, 2006)

Fa sempre notizia il fatto che esista un’Inghilterra che non vive di sole chitarre frin frin. Il trend degli ultimi anni, evidentemente, a qualcuno non attrae per niente. E menomale, se la risposta è in un disco come questo. Un debutto che possiede tutte le credenziali necessarie per affermarsi. Pop orchestrale, una voce calda che ricorda Rufus Wainwright (non andrò più in là con rischiosi paragoni): il segreto dei Guillemots, tradotto, rondini di mare, sta tutto qui. Laddove i gruppi di oggi tendono a ricercare la melodia orecchiabile per il cosiddetto singolone, i nostri si gettano nella realizzazione di suoni delicati ed avvolgenti, atmosfere ammalianti che non sono forse quanto di più estivo si possa sentire in questa stagione ma disegnano spazi sconfinati da sognare ad occhi aperti. Inoltre è anche un disco dove è forte la componente brasiliana (da cui proviene il chitarrista Margao): “Trains to Brazil” è un carnevale di Rio in scala ridotta combinato con archi eterei per un episodio ragguardevole. E, facilmente intuibile dal bellissimo titolo, “A Samba in the Snowy Rain”: sensibilità tutta britannica ma fiati, cori e percussioni sudamericani. Roba non da poco.

La dilatata “If the World Ends” è semplicemente incantevole così come le liriche – Se il mondo finirà, spero che sarai qui con me – potremo ridere abbastanza, quanto basta per non morire soffrendo – mentre “We’re Here” rievoca i migliori Mercury Rev e sembra arrivare a far toccare il cielo. E più lo ascolto, a volumi da denuncia da parte dei miei vicini, più mi convinco che sia uno dei dischi dell’anno. Perché la prova vocale di Fyfe Dangerfield in “Blue Would Still Be Blue”, sostenuto solo da qualche nota di tastiera qua e là, è una dichiarazione d’amore fantastica. E se c’è un singolo che meriterebbe di mettere sottosopra le charts, sarebbe di sicuro “Annie, Let’s Not Wait”: un sound semplicemente troppo maestoso e caciarone per non essere amato. La stessa grandiosità tradotta in oltre undici minuti della conclusiva “Sao Paolo”: manco a dirlo, Britain meets Brazil. Tanto di cappello quindi a questa nuova uscita londinese. Finalmente una di fronte a cui non si storce il naso.

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