DEATH CAB FOR CUTIE, Transatlanticism (Barsuk, 2003 – Grand Hotel Van Cleef / Audioglobe, 2005)

Dopo oltre due anni dall’uscita “Transatlanticism” arriva ora anche in Italia per la Grand Hotel Van Cleef. Nonostante una difficile distribuzione nel nostro paese, “Transatlanticism” segnò all’epoca il discreto successo di una band sconosciuta a molti, tanto da trasformare il cantante/chitarrista Ben Gibbard da timido songwriter a icona indie di fama, complici i Postal Service, progetto electropop con l’amico Jimmy Tamborello, uscito nello stesso 2003.

Cresciuti sotto l’ombra dei connazionali Built To Spill, tre lavori alle spalle molto interessanti ma indubbiamente meno consistenti, il gruppo nato nei sobborghi di Washington ingaggia il nuovo batterista fisso Jason McGeer, proveniente dagli Eureka Farm, e ci propone un disco intenso e maturo, un gran salto in avanti rispetto al passato.
Un trionfale accordo di chitarra distorta apre l’epica “The New Year”, uno dei pochi episodi veramente rock dell’intera carriera del quartetto. Ma il disco è di tutt’altro umore, e una raccolta e dolce “Lightness” precede l’ingresso in scena della drum machine di “Title and Registration”, facilmente riconducibile alle già citate escursioni elettroniche del leader. La dondolante “Expo ’86” ha un tono più leggero e dimesso e grazie alle fragorose chitarre del ritornello rasenta l’emo punk più contenuto. Stesse chitarre sfreccianti per i due minuti di “The Sound of Settling”, frizzante gemma pop che con tanto di divertenti coretti contagiosi ci mostra un Gibbard fortunatamente in grado di mettere da parte la sua drammaticità per scrivere pezzi ballabili e meno impegnativi.

Come non detto, il disco si rimmerge in quell’atmosfera sofferta, proseguendo con il pessimistico amore di “Tiny Vessels” e sfociando nella title track. “Transatlanticism” parrebbe essere la scomessa del gruppo, una ballata pianistica di otto minuti, con l’incessante ripetersi del verso “I need you so much closer” che va a concludersi in un liberatorio “So come on, come on…” a più voci. Se la vetta del disco è proprio questa lunga e sospesa “Transatlanticism”, il resto procede senza episodi particolarmente rilevanti, confermando che la penna di Gibbard unita a delicati arpeggi di chitarra e a poche note di tastiera riesce perfettamente a dipingere paesaggi decadenti e malinconici che colpiscono emotivamente l’ascoltatore ma che forse sono ancora troppo labili per poter costituire un capolavoro.

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