BONNIE PRINCE BILLY, Summer In The Southeast (Sea Note, 2005)

Per la prima volta in vita mia, nell’agosto scorso, mi sono imbattuto dal vivo in Bonnie ‘Prince’ Billy e nella sua accolita di musicisti. Il tutto è avvenuto a Faenza, in una notte fatata perfettamente raccontata su Musikàl da Daria Pomponio; alla fine del concerto mi sono detto “cavoli, ci sarebbe davvero bisogno di un live in cd del buon Will Oldham!”.

Detto fatto, ecco che prontamente la Sea Note fa uscire sul mercato internazionale questo “Summer in the Southeast”, approntato incastrando registrazioni di concerti tenuti in Florida, Georgia, Mississippi e North Carolina. Insomma, tracciando una linea immaginaria, si può facilmente desumere come questi estratti siano ripresi in quel Sud degli Stati Uniti al quale il suono e il grado di malinconia di Bonnie ‘Prince’ Billy possono essere accomunati. Il cantautore sta dunque, in un certo senso, giocando in casa: la sua musica si sposa perfettamente con le pianure, le paludi, l’immensità del Mississippi – il fiume che fu di Mark Twain, altro grande narratore del sud – la parte più bassa dei monti Appalachi. Diciassette brani del proprio repertorio riletti, quasi trasformati in altrettanti standard, in cui l’irruenza si sposa con l’ubriachezza, la morte dell’anima trova (momentanea) consolazione nei crescendo, e tutto si muove con una logica che ha in sé qualcosa di archetipico, di antropologico, di sociologico.

Quale merito per un documento privo di alcuna intenzione avanguardista potrebbe essere più alto del riuscire, solo attraverso note e voce, a rendere con una chiarezza cristallina le immagini di un mondo, di un modo di essere, di un perché? “Summer in the Southeast” riesce in tutto questo, ed è tutto ciò che gli si può chiedere. Per il resto la registrazione è ottima, la band (composta, tra gli altri, da Paul Oldham e dal fedele Matt Sweeney) in gran forma e la scelta dei brani spesso illuminante; e qui potrebbe iniziare il gioco delle preferenze. La mia ricade senza neanche pensarci sulla straordinaria profondità emotiva di “I See A Darkness” – come si fa a resistere quando si ascoltano parole come “Well You’re My Friend, That’s What You Told Me, and Can You See What’s Inside of Me”? -, ma mi rendo conto che è un divertissement che lascia il tempo che trova.

Quel senso di appagamento non indispensabile ma soddisfacente che è alla fin fine proprio di un’operazione come quella portata avanti da Bonnie ‘Prince’ Billy in quest’ultimo lavoro; i suoi fan andranno in sollucchero, coloro che erano all’oscuro della sua esistenza dovranno comunque prima o poi – al più presto – fare i conti con i lavori in studio. Resta il puro piacere dell’ascolto: è poi così poco?

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