ONEIDA, Nice. Splittin’ Peaches (EP, Ace Fu, 2004)

Va bene, lo ammetto senza remore: gli Oneida sono, tra i gruppi fondamentali degli ultimi dieci anni quello a cui ho dedicato più volentieri una mia fetta di cuore (insieme ai Radiohead). Eppure, al di là della semplice ammirazione incondizionata, come si può non esultare di fronte a un’uscita come questo “Nice. Splittin’ Peaches”? Verissimo, si tratta solo di un EP, un tassello dopotutto marginale all’interno della produzione di una band, tanto più se il combo in questione è iperattivo come i nostri, arrivati al nono lavoro in sette anni – e con “The Wedding”, in uscita il 2 maggio, arriveremo a dieci album in otto anni -.

Eppure, così come a suo tempo “Steel Rod” era stato germe fondamentale dello sviluppo del suono Oneida, fatto di reiterazioni infinite, atmosfere stressate e ossessionanti unite a un calore vagamente seventies, oggi questo EP propone parecchi spunti interessanti di discussione. Che i bilanciamenti di suoni dopo l’accoppiata “Each One Teach One” e “Secret Wars” fossero destinati a un ripensamento appariva abbastanza ovvio: la band sembrava aver dato tutto quanto fosse possibile in quella direzione, raggiungendo vertici stilistici quasi impensabili.

L’apertura di questo piccolo lavoro affidata a “Summerland” permette di capire subito quanto il terzetto newyorchese si fosse reso conto della necessità di un cambio strutturale: accordi acustici, drones ambientali e poi ecco partire un brano nel perfetto stile psichedelico della West Coast, con voci sovrapposte impegnate in versi adagiati perfettamente sui riffs di chitarra e sulle stoccate di batteria, prima che il pezzo scivoli letteralmente dalle maglie imposte e si prolunghi in un flusso di coscienza drogato nel quale trova spazio addirittura un sax isterico suonato da Charles Waters. La seguente “Inside My Head” è un’elegia ovattata, accompagnata da una batteria essenziale e dal basso e sovrastata dalla tastiera; il cantato ora si fa vicino al pop sognante dei Beach Boys e all’universo Beatnik.

L’aspetto lisergico della musica, solitamente relegato alle improvvisazioni dilatate, riveste un ruolo ben più rilevante e lo dimostra il folk-pop estremamente melodico di “Song Y”. Il compito di fungere da collante tra le esperienze passate e il futuro ipotizzato in queste poche tracce spetta alla conclusiva “Hakuna Matata” la quale, nonostante il titolo significhi “nessuna preoccupazione” risulta essere la composizione più ansiogena e stressata dell’intero EP, riportando alla mente l’oramai storica “Sheets of Easter” o la “Double Lock Your Mind” che andava a chiudere “Anthem of the Moon”. Nel complesso un lavoro eccellente, ennesima dimostrazione del genio di Kid Millions, Hanoi Jane e Fat Bobby. L’attesa per “The Wedding” inizia a farsi spasmodica…

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