BLACK EYES, Cough (Dischord, 2004)

Com’è universalmente noto ci sono molti modi di morire estremamente diversi fra loro. C’è chi se ne va con un bang, chi con un tonf, chi con uno splash: i Black Eyes, dopo il bell’esordio dell’anno passato, hanno deciso di abbandonarci con un cough. Un rapido e quasi impercettibile colpo di tosse, di quelli che ti fanno mettere perentoriamente la mano davanti alla bocca nella speranza di non aver dato nell’occhio.

E’ parere comune affermare che difficilmente ciò che esce dalle fucine della Dischord possa arrivare a deludere, e anche questo commiato della band statunitense mantiene alto il nome della label. Non che ci sia nulla in grado di far strabuzzare gli occhi, sia chiaro, i difetti che avevano impedito all’esordio di proporsi come uno degli album dell’anno sono ancora presenti: una formula, quella del funk che decide di sposarsi con il punk, che inizia ormai a mostrare la corda e sotto sotto l’incapacità di gestire appieno il materiale sonoro a disposizione.

Eppure il brano di apertura “Cough, Cough/Eternal Life”, nella sua affascinante litania rumorista sorretta da un basso in perfetta linea dub sembra promettere molto; nel momento in cui le chitarre volano lontano in feedback indefinibili, la batteria tiene un tempo jazzy, il tutto gravita a pochi, pochissimi passi dal puro free-form, gli urli si fanno decisamente punk, i fiati iniziano a farsi sentire con prepotenza siamo già immersi in “False Positive”. Quando l’ago della bilancia sembra spostarsi in territori più prossimi agli stilemi classici della Dischord si respira aria da grande gruppo, quando invece l’anarchia sonora prende il sopravvento si ha la netta impressione di trovarsi di fronte a ragazzi dalle belle idee ma ancora incapaci di mettere a fuoco il centro della propria ricerca sonora.

“Drums” è un’interessante via di mezzo fra le due ipotesi, qui i fiati si fanno largo in un tempo tiratissimo, stressato, quasi insostenibile nella sua furia, “Scrapes and Scratches” è sicuramente il brano in cui la tessitura musicale risulta maggiormente curata, ipnotico viaggio in un mondo capace di ospitare al contempo un tempo da marcetta, un basso dub e una serie di fanfare da fare invidia al carnevale di New Orleans. Ma spesso questa ricerca della fusione musicale cade in infantilismi incomprensibili, come nella demenzialità di “Another Country”, forse il peggior brano mai scritto dalla band.

Insomma, l’incompiutezza resterà impressa per sempre come marchio di fabbrica dei Black Eyes, ora che hanno deciso di sciogliersi: un vero peccato, visto che c’era sicuramente la possibilità che, aggiustando la mira e abbandonando ipotesi free inconciliabili con il dna della band, questi cinque ragazzi con due bassi e due batterie in line-up sfornassero un capolavoro. L’album omonimo c’era andato non troppo lontano, questo “Cough” aveva rincarato la dose. Ripeto, peccato…

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