LIARS, They Were Wrong, So We Drowned (Mute, 2004)

La più grande sorpresa del 2004 passa dalla Grande Mela. New York, ventre e culla per il rock da trenta e passa anni a questa parte, è la città della palingenesi per eccellenza: capace di rigenerare il proprio suono mantenendo intatta la natura stressante e catartica propria di una megalopoli (quello che si sta apprestando a diventare) occidentale.

Angus Andrew, Aaron Hempill e Julian Gross sono i Liars, la musica caratterizzante della prima metà dell’anno. Venivano da un esordio interessante ma assolutamente incapace di soddisfare in pieno, troppo immaturo, adagiato su altri suoni, scattoso nel suo divenire. Avevano messo mano a uno split in compagnia dei concittadini Oneida, uscendone decisamente sconfitti. Un curriculum vitae che non faceva minimamente supporre l’esplosione presente in questo straordinario “They Were Wrong, So We Drowned”.

A stupire particolarmente è la capacità di questi ragazzi di lasciarsi alle spalle le varie derive post-punk, funk e garage senza accusarne il colpo. O meglio, rigenerandole dopo averle deturpate e vilipese. Se l’attacco di “Broken Witch” è la sagra della reiterazione assoluta, monotonia vocale che si fa lentamente angoscia, ineluttabile corsa verso il nulla, “Steam Rose from the Lifeless Cloak” è semplicemente la riproposizione di un flusso di rumore costante, dall’effetto straniante e disturbante.

I Liars sembrano proporre una versione della società dei consumi e dell’industria quasi mistica nella sua declamazione funerea e atona (atona in quanto elemento estremo di un’omologazione e di una reiterazione da catena di montaggio che ha raggiunto picchi inimmaginabili), cantori di uno zen robotico che ha la grandezza e l’intelligenza per porsi come punto fermo della musica dei prossimi anni.

Anche quando i ritmi sembrano riallacciarsi al passato recente della band, come in “There’s Always Room on the Broom”, è facile rendersi conto della netta sterzata musicale attuata. In “We Fenced Our Houses with the Bones of Our Own” l’ipotesi mistica di cui parlavamo prima emerge in tutta la sua nuda dolcezza da un coacervo di suoni e riverberi, subito bistrattata dallo scatenato miscuglio di punk/funk/elettronica di “They Didn’t Want Your Corn, They Want Your Kids” che sembra voler proporre un gioco di immedesimazione tra i Liars e il resto della combriccola neo-funk che va per la maggiore negli States. Trattandosi per l’appunto di un gioco l’immedesimazione svanisce nella seguente “Read the Book That Wrote Itself”, scandita da boati, una batteria tribale, loop funerei, schizofrenie ritmiche, in un magma sonoro che non sarebbe risultato estraneo al Pop Group.

E proprio qui risiede l’idea geniale alla base del progetto attuale dei Liars: in un momento in cui sembra impossibile prescindere da paragoni con la scena post (rock/funk/punk che sia) lo scarto sta nel trasformare tutto ciò che è post in un pre. Qui siamo di fronte a una creatura deforme, illogica, conturbante e cupa, in grado di distruggere amabilmente un’abitudine al suono contemporaneo che rischiava di divenire semplice assuefazione, e di ricrearla a nuova vita. Senza paura di mescolare le carte, come dimostra la conclusiva “Flow My Tears the Spider Said”, ballata dark della miglior specie, dove l’organo (tastiere elemento estraneo al DNA della band) la fa da padrone.

I Liars hanno dato alla luce il miglior disco garage dell’anno senza risultare praticamente mai garage e hanno suonato uno dei migliori dischi di elettronica dell’anno senza usare praticamente mai strumentazione elettronica. Mentre vi affannate alla ricerca del significato di tutto ciò di una cosa sola dovete essere certi: “They Were Wrong, So We Drowned” ha le carte in regola per puntare alla palma di miglior album del 2004.

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