APPALOOSA, Appaloosa (Ondanomala Records, 2003)

L’indipendentismo anni ’90, caratterizzato fortemente dalla corrente post-rock, ha posto l’accento sulla costruzione, circolare e ammaliante, di forme musicali che riuscissero a bastare a sé, principio e fine della propria esistenza. La voce diventava un elemento aggiunto, spesso narrante e sussurrante – come negli Slint -, pronta a inasprirsi in urla improvvise, e altre volte completamente assente. E’ stato il caso dei Trans Am, dei Don Caballero, dei Tortoise; è oggi, in Italia, il caso degli Appaloosa, band toscana vincitrice al concorso “Bandanomala” del 2002, organizzata da ArezzoWave.

Il trio, minimale chitarra/basso/batteria pronto a raddoppiare il basso – come lo stile post-rock insegna ed educa -, da il via alle danze con il suggestivo ed ipnotico intro di “Tozzidecadence” mentre sprazzi di synth si presentano come elemento straniante: una pausa improvvisa e via ad un incedere meno lineare, con gli strumenti ad inseguirsi nella ricerca di una nuova e più corposa rotondità musicale.

La voce compare unicamente in “Agitated Summer”, ed è un parlato nevrotico che asseconda alla perfezione gli scarti sonori improvvisi, le accelerazioni e le deflagrazioni liberatorie. Gli Slint qui non sono certo stati ascoltati con superficialità. Nuovamente un minimalismo delicato e una struttura ad intreccio per “Herbstreet”, su cui si sovrappongono suoni abrasivi e rumori mentre la chitarra si fa più snervata, fino all’irrompere della batteria che trascina il brano in un incedere ossessivo e apparentemente senza fiato.

La maturità la band sembra raggiungerla soprattutto nella linearità strutturale di “Giovanotto”, viaggio a 360° nel mondo degli Appaloosa e, di conseguenza, viaggio attraverso un decennio di esperienze musicali indipendenti dal mainstream musicale. “Johnny Froid” propone un’urgenza più prettamente rock, con reminiscenze anni ’70, ma appare come un corpo estraneo al resto dell’opera, sorretto da altre intenzioni e da altre derive musicali, e risulta a conti fatti più un divertissement che altro. “Sinapsi” ci riconduce immediatamente in vortici prettamente post-rock, con i bassi in splendida evidenza, “Z” fa dell’aritmia e della scomposizione il suo verbo, sabba nevrotico e snervante, dimostrazione di vitalità della band – e chissà se il riferimento del titolo è al significato greco della lettera (“è vivo”) -.

L’album si chiude con la reiterazione musicale e la ciclicità (infinita?) di “Clocks”, epitaffio e al contempo nascita. Niccolò Mazzantini, Enrico Pistoia e Marco Zaninello dimostrano di avere tra le mani un progetto interessante, che per adesso si limita a riproporre stilemi e “luoghi comuni” musicali, ma che, scaricato dalle spalle il peso di una derivazione musicale poliforme e avvolgente come il post-rock – nel resto del mondo sta mostrando la corda, qui in Italia arriva ora? Non ci sarebbe da stupirsi, ma da preoccuparsi -, potrebbe arrivare a prospettare un futuro più che roseo. Il giudizio per ora è sufficientemente positivo, ma è sospeso in attesa di ulteriori conferme.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *